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Lo chiamavano Jeeg Robot: una punta di coraggio nel deserto del cinema italiano

by Davide Di Stefano
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maxresdefault (1)Roma, 8 mar – “Ma perché non facciamo un film su un supereroe, un robottone giapponese che però abita a Tor Bella Monaca e fa gli scippi?”. L’idea deve essere nata così, magari alla fine di una serata dove il regista e lo sceneggiatore devono aver alzato troppo il gomito. Lo Chiamavano Jeeg Robot è un’operazione rischiosa, un film visionario, che però centra l’obiettivo realizzando la prima pellicola con un supereroe italiano. In realtà più che a una serata alcolica l’idea del film deve molto ad un cortometraggio firmato dallo stesso regista Gabriele Mainetti qualche anno fa, “Tiger Boy”, che arrivò tra i dieci finalisti agli Oscar nella categoria cortometraggi. Un lavoro che parlava di un ragazzino che aveva per mito “Il Tigre”, un wrestler romano del quartiere Corviale (estrema periferia romana con architettura sovietica), che ha più di una parentela con l’Hiroshi Shiba di Tor Bella Monaca interpretato da Claudio Santamaria in Lo Chiamavano Jeeg Robot. Con mezzi economici limitati (negli Usa con 1,7 mln di euro ci pagano un paio di cachet e dieci buste di pop corn) il film fonde una “classica” storia da supereroe, quella dell’uomo qualunque che investito di poteri straordinari affronterà attraverso una “missione” un percorso di redenzione, con un po’ di gangster movie all’italiana, un po’ di storia di periferia alla Caligari e molta ironia, con tratti quasi da commedia, che però non intaccano la serietà dell’operazione e la forza drammatica del film.

Trama. In una Roma scossa da misteriosi attentati (più camorristici che politici), vive Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), un ladruncolo gretto e arido, che passa l’esistenza tra uno scippo e un film porno. Caduto nel Tevere al termine di un inseguimento entrerà misteriosamente in possesso di misteriosi “super poteri”. Casualmente Ceccotti verrà a contatto con la banda dello “Zingaro” (un ottimo Luca Marinelli), un criminale un po’ pazzoide e megalomane, a metà tra il Libanese e il Joker, ossessionato dal “rispetto” che gli spetta e dalla “fama” che deve ottenere. Dopo la morte di un amico di Ceccotti, la figlia Alessia (Ilenia Pastorelli), affetta da disturbi mentali che le fanno confondere la realtà con il manga giapponese Jeeg Robot d’Acciaio, si attaccherà ad Enzo Ceccotti scambiandolo per Hiroshi Shiba. Anche grazie all’amore per la ragazza, Ceccotti prenderà coscienza di poter essere davvero un supereroe, accettando la sfida con l’antagonista, lo Zingaro, nel tentativo di salvare l’umanità (o più precisamente Roma).

Uno dei limiti del film è principalmente il budget, con una ridotta possibilità nell’utilizzo di effetti che normalmente sono il “sale” di una storia di supereroi. Le idee e l’ambientazione originale sopperiscono a tutto questo, anche se a volte un certo “culto” della periferia e di una certa umanità borgatara è leggermente stucchevole. La struttura del film regge bene, anche se indugia troppo nella seconda parte della pellicola, dove il ritmo scende un po’ e si avverte un po’ di difficoltà a “chiudere”, o meglio si crea un po’ di confusione con troppi “finali”. In generale resta un ottimo film e come detto fin da subito, in un panorama del cinema italiano fermo al “film d’autore” che parla dei giovani precari o alla commediola che gioca sulle situazioni familiari, Lo Chiamavano Jeeg Robot è un raro esempio di coraggio e di creatività. Con uno stile riconoscibile, dove anche la colonna sonora con la musica leggera italiana degli anni ’80 gioca un ruolo fondamentale, ottimi attori tagliati perfettamente per i ruoli, il film di Mainetti vale il prezzo del biglietto e dimostra che anche in Italia si può fare qualcosa di diverso. Certo se poi ci fossero anche due soldi sarebbe pure meglio.

Davide Di Stefano

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