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My Lai e le altre: quando i tribunali internazionali “dimenticano” le stragi dei vincitori

by La Redazione
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Roma, 8 apr – Lo scorso 16 marzo ricorreva il 50esimo anniversario della strage di My Lai, uno degli episodi bellici più cruenti e al tempo stesso famosi della guerra del Vietnam, che segnò in maniera indelebile la coscienza dell’opinione pubblica, americana innanzitutto, e di quella occidentale in generale. Quella strage, resa celebre da uno degli ordini forniti alla truppa che sarebbe poi diventata una autentica frase “cult” (“sparate su tutto ciò che si muove!”), avrebbe infatti contribuito in maniera decisiva alla nascita di un movimento di opinione internazionale, specie nel mondo giovanile, su entrambe le sponde dell’Atlantico e all’interno della sinistra liberal, ed avrebbe inesorabilmente trasformato agli occhi del mondo l’intervento Usa in Indocina da crociata anticomunista, come era stato inteso fin lì, nella famigerata “sporca guerra del Vietnam”. Cosa che avrebbe, infine, pesato decisivamente sulle successive scelte politiche dell’amministrazione Nixon e sulla sua decisione di un graduale ma inarrestabile sganciamento americano dallo scacchiere indocinese.
La strage di My Lai e, in particolare, la successiva vicenda giudiziaria che ne derivò, rappresentano, probabilmente, la migliore riprova della mancanza di sostanziale legittimità dei cosiddetti tribunali internazionali contro i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità, a partire dal più famoso di essi, quello che a Norimberga, fino ad arrivare in epoca più recente alla Corte Internazionale dell’Aja ed ai processi inerenti la guerra civile jugoslava. La ragione è molto semplice: questi tribunali amministrano la giustizia dei vincitori ai danni dei vinti della storia. Perché, come vedremo per il processo seguito alla strage di My Lai, quando il medesimo crimine è compiuto da militari appartenenti alla cosiddetta “parte giusta della Storia” non valgono più le argomentazioni giuridiche e morali addotte per esempio dai giudici di Norimberga.
Quella mattina del 16 marzo 1968 tre compagnie dell’11esima divisione di fanteria Usa, sul terreno formalmente agli ordini del tenente William L. Calley ma in esecuzione di una operazione decisa e coordinata dal capitano Ernest L. Medina, irruppero nel villaggio sud vietnamita di My Lai, composto da contadini e pescatori, in quanto, secondo le informazioni raccolte, si sospettava che ospitasse il 48esimo battaglione Viet Cong (che con le sue azioni di guerriglia stava infliggendo pesanti perdite agli americani nella zona) o quanto meno che lo supportasse fornendo informazioni e cibo, senza, tuttavia possedere prove certe al riguardo che andassero oltre i sospetti alimentati dai rapporti informativi. E la successiva inchiesta avrebbe poi dimostrato che la popolazione del villaggio non aveva assolutamente niente a che fare con i Viet Cong. Vennero uccise tutte le persone trovate, circa cinquecento, in gran parte donne, vecchi e bambini, e le donne quasi tutte dopo essere state violentate, falciate dalle mitragliatrici Usa dopo essere state riunite in gruppetti. Un bambino era stato sventrato a colpi di baionetta mentre ad una donna, dopo essere stata violentata, venne infine messo la bocca di un M16 nella vagina e tirato quindi il grilletto.
La strage di My Lai non era, peraltro, in Vietnam, un caso isolato. Una delle motivazioni in seguito addotte infatti dagli imputati per aver taciuto a lungo sulla stessa fu proprio quella di non averla ritenuta un episodio particolarmente grave e significativo, e comunque non più di tanti altri a cui avevano assistito o partecipato, in quanto in Vietnam di My Lai ne avvenivano quasi tutti giorni, ed anche di più gravi. Ciò che avrebbe fatto sì che proprio la storia di quella strage, a differenza delle tante altre perpetrate nell’infelice terra d’Indocina in quegli anni, avrebbe fatto il giro del mondo, fu che alcuni dei soldati che vi parteciparono per una qualche ragione continuarono a parlare di essa fino a quando tali voci giunsero alle orecchie di un paio di corrispondenti di guerra. In un primo tempo vi fu soltanto una mera inchiesta interna, assolutamente non ufficiale, da parte delle forze armate Usa, che si concluse con il classico nulla di fatto, archiviando la stessa alla stregua di voci senza fondamento. Ma dopo che i due corrispondenti di guerra parlarono con un militare che aveva raccolto molte testimonianze dirette sulla strage, tale Ronald Lee Ridenhour, i due riuscirono a suscitare finalmente l’attenzione e l’interessamento del governatore dell’Arizona, che spinse affinchè lo stesso Ridenhour fosse ascoltato e che si aprisse, quindi, una inchiesta ufficiale da parte della Corte Marziale. E così, a distanza di diciotto mesi dalla strage, si aprì infine un processo a cinque imputati, tra cui i suddetti Medina e Calley. Fu un processo che suscitò l’interesse incredibilmente morboso dell’opinione pubblica americana ed il capitano Medina venne, peraltro, difeso dal celeberrimo e vulcanico Francis Lee Bayley, all’epoca l’avvocato penalista forse più popolare negli Usa, che trasformò il processo ancor di più in uno show pari ad un Super Bowl con una serie di roboanti conferenze stampa tese a presentare il suo assistito Medina, che pure era provato avesse più volte sostenuto la necessità di tenere sul terreno comportamenti del tutto simili a quelli avvenuti a My Lai, nel classico solco dell’eroe americano senza macchia… Dei cinque imputati venne condannato, nel 1971, il solo tenente Calley mentre Medina, pur suo superiore diretto e responsabile dell’operazione, venne assolto perché non vi erano prove certe che sapesse effettivamente quanto Calley e i suoi uomini stessero facendo nel villaggio. Calley venne condannato dapprima ai lavori forzati a vita, poi a venti anni, quindi a dieci, ed infine, nel 1974, graziato da Nixon (poco prima che lo stesso presidente fosse costretto a rassegnare le proprie clamorose dimissioni a seguito dello scandalo “Watergate”…) dopo aver trascorso tre anni ai comodi arresti domiciliari.
Quello che, dal punto di vista storico e giuridico preme sottolineare, fu l’assoluta identità tra le versioni addotte dall’alto comando Usa e dagli stessi imputati per giustificare il comportamento tenuto dai militari americani nel villaggio di My Lai (giustificazioni che pesarono in modo decisivo nelle assoluzioni dei quattro imputati e nel trattamento detentivo generoso successivamente offerto all’unico condannato). Si disse che la truppa era frustrata a causa dello stillicidio continuo di imboscate ed agguati mortali compiuti quotidianamente dai partigiani comunisti, e che in tale contesto andava inquadrata la reazione violenta avvenuta a My Lai. Si è sempre sottolineato che è nel pieno diritto di una popolazione civile sottoposta ad un regime di occupazione da parte di militari stranieri quello di compiere azioni di guerriglia e sabotaggio violenti, senza che questo possa giustificare in alcun modo la reazione violenta a tali atti attraverso rappresaglie sommarie da parte degli occupanti. Dimenticando, quindi, secondo tali principi giuridici, che a My Lai, quel 16 marzo 1968, erano proprio loro, i miliari Usa, gli occupanti un territorio straniero, e che, quindi, fosse nel pieno diritto dei Viet Cong compiere azioni violente di resistenza.
Per saltare poi ad epoche più recenti si potrebbe quindi ricordare che, nel processo imbastito a Saddam Hussein dopo la sua cattura, gli americani gli contestarono, tra le altre cose, uno specifico episodio e cioè l’aver ordinato nel 1982 l’uccisione di 148 sciti del villaggio di Dujail, a seguito di un attentato alla sua persona. Un episodio in tutto e per tutto sovrapponibile a quello di My Lai. In buona sostanza questo genere di processi, che sempre vedono alla sbarra dei perdenti e sul banco degli accusatori i vincitori, si traducono immancabilmente soltanto in una parodia di giustizia, usata strumentalmente a scopo propagandistico, per disumanizzare il nemico politico e militare, per trasformarlo in un nemico dell’umanità e giustificare, quindi, ai suoi danni, atti di fatto disumani ad opera di coloro che stanno “dalla parte giusta della storia”. Per questo i processi per crimini di guerra dovrebbero essere bandìti, se si guarda alla storia con la dovuta onestà intellettuale, perché privi di una loro intrinseca legittimità in quanto fondati unicamente sul sistematico presupposto che il colpevole sia sempre uno sconfitto ed il giudice un vincitore, e la condanna (o la mancata imputazione) per determinati crimini dipende sempre da quali delle suddette qualità si riveste.
Francesco Filograsso
 

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1 commento

Gianfranco Mergoni 8 Aprile 2018 - 12:13

“Crimini di guerra”!… Penso che questa definizione sia uno dei tanti trionfi dell’ ipocrisia!… La guerra è di per sé un crimine!!! Da sempre, ben oltre la memoria d’ uomo, con il nemico, prima lo annienti e poi ci discuti!…..

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