Roma, 10 giu – La storia del tessuto produttivo italiano è storia di piccole e medie imprese, distretti e reti, conoscenze diffuse. Difficilmente il capitale privato è stato in grado di investire proficuamente, attendendo per il resto il generoso aiuto (o salvataggio a fondo perduto, vedi alla voce Fiat dagli anni ’70 e almeno fino all’arrivo di Marchionne) pubblico salvo poi gridare all’invadenza dello Stato. Un rapporto di necessità e diffidenza reciproca che ha polarizzato anche le posizioni teoriche che si son spinte fino al malcelato disprezzo per le ridotte dimensioni d’azienda, con corredo di peana nei confronti dell’estero di volta in volta innalzato come modello di efficienza, produttività, esempio e modello cui l’Italia può, nella migliore delle ipotesi, solo tendere ma senza mai essere in grado di raggiungerlo.
Valvitalia, così come tante altre realtà sconosciute ai più, sembra essere qui proprio per dimostrare l’esatto contrario e mettendo i gufi del malaugurio -non gli antirenziani ma quelli che credono di darsi un tono sentenziando, compiacendosene, della deindustrializzazione nazionale in atto- spalle al muro di fronte al fatto compiuto. L’azienda nasce nel 2002 a Rivanazzano Terme, nell’operosa provincia di Pavia, per intuizione di Salvatore Ruggeri, che da oltre 30 anni aveva accumulato esperienza nel settore delle valvole. Insieme ai figli procede all’acquisizione di realtà storiche, raccolte attorno ad un progetto che sembra visionario, ma destinato al successo su scala globale.
L’obiettivo della “chiamata a raccolta” delle aziende del settore e confluite, chi prima e chi dopo, nel gruppo Valvitalia, è la creazione di una realtà italiana capace di competere con i grandi attori mondiali produttori di valvole, quasi tutti nordamericani. L’ambito di elezione è quello degli idrocarburi e delle infrastrutture connesse a gas e petrolio, ma non solo: nel tempo il raggio di operatività si estende fino ad altri settori, limitrofi a quello originario, con l’obiettivo di “portare al cliente un insieme completo di soluzioni, dalle valvole, ai filtri, ai raccordi, agevola le trattative, specie in mercati. E ci permette di offrire sconti e condizioni migliori”, spiega l’amministratore delegato Salvatore Ruggeri. Ecco allora l’ingresso -sempre con valvole e derivati- nel settore della desalinizzazione, della cantieristica, della generazione elettrica, ma anche l’acquisto di aziende operanti nel ramo degli impianti antincendio e comunque in ogni luogo dove l’idraulica faccia da padrone.
Rose e fiori? La crisi ha morso, il calo dei prezzi del petrolio ha fatto il resto e per un certo periodo anche Valvitalia ha dovuto ricorrere a strumenti quali la cassa integrazione. E non senza polemiche: a seguito di una verifica fiscale intervenuta a pochi giorni dalla conclusione delle difficili trattative per una fornitura all’Iran sotto embrago, Ruggeri decise di restituire a Napolitano l’onoreficenza di Cavaliere del Lavoro, per la “sfiducia nei confronti di alcuni organi dello Stato che stanno ingiustamente colpendo una delle più belle realtà industriali”.
Il fondatore e ad ne ha ben dove. L’azienda è infatti radicata in Italia, ma non solo: nove gli stabilimenti del gruppo, dei quali quattro all’estero. Con un fatturato che è cresciuto dai 29 milioni del 2002, somma algebrica dei fatturati delle imprese riunite originariamente, ai 430 del 2014. Le commesse
Una storia di successo, che senza quel poco di politica industriale che ancora rimane in Italia non sarebbe stata possibile. Valvitalia è infatti realtà a stretta gestione famigliare, ma che nella sua crescita è stata fortemente aiutata dal Fondo strategico italiano, braccio operativo di Cassa depositi e prestiti che ha investito oltre 150 milioni di euro in un prestito obbligazionario che, nell’ipotesi di conversione, farebbe salire Fsi al 49.5% del capitale. Un modo per iniettare risorse fresche lasciando la guida nelle mani di chi ha saputo tenere la barra dritta, “consentire la continuità azionaria dell’imprenditore fondatore e proseguire la crescita, ponendo Valvitalia come consolidatore e non come consolidato”. Strategia di ampio respiro che inverte il paradigma e non vede pubblico e privato contrapposti, bensì alleati in ottica di mutuo vantaggio.
Filippo Burla