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Per l'Unesco il reggae è "patrimonio dell'umanità". E perché gli stornelli romaneschi no?

by La Redazione
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Roma, 30 nov – Può un genere musicale diventare Patrimonio dell’Umanità? A quanto pare, secondo l’Unesco, ora si. Pochi giorni fa l’agenzia culturale e scientifica dell’Onu ha dichiarato il Reggae, la tradizionale musica “in levare” Giamaicana, “intangible cultural heritage of Humanity” (patrimonio culturale intangible). Secondo l’Unesco, infatti, il genere musicale reso celebre nel nostro continente negli anni sessanta e settanta da Bob Marley ha espresso “il suo contribuito al dibattito internazionale su ingiustizia, resistenza, amore e umanità e sottolinea le dinamiche che lo rendono contemporaneamente cerebrale, socio-politico, sensuale e spirituale”.

Altro valore aggiunto che avrebbe il reggae rispetto a, chessò, gli stornelli a dispetto romaneschi, è che si è originato in una comunità marginale, repressa, come quella dei discendenti degli schiavi neri nelle isole caraibiche (ricordiamo, infatti, che il reggae  e i suoi derivati sono infatti “musica popolare” anche in altre nazioni, come le Barbados). “Col tempo, gli stili neo-africani, il soul e il rhythm and blues del Nord America furono incorporati nel nuovo elemento, trasformando gradualmente lo Ska nel Rock Steady e quindi nel Reggae”. Verrebbe dunque da chiedersi come mai, secondo l’Unesco, non sarebbero meritevoli di far parte di questo patrimonio “immateriale” anche i generi che lo hanno originato, come per l’appunto, il soul: derivato dagli spiritual cantati dagli schiavi neri degli Stati Uniti d’America, è per eccellenza la musica della “rivalsa” di un popolo sfruttato.

Come il soul, molta musica di estrazione “popolare” in Europa è figlia di canti di elevazione spirituale di una popolazione altrimenti in uno stato di prostrazione economica e sociale: un esempio su tutti può essere quello dei canti delle mondine Lombarde e Piemontesi. Donne costrette a lavorare in condizioni insalubri, esposte a malaria, sanguisughe, malpagate e con orari inumani, hanno fatto del canto la loro forza e anche la loro vittoria. Non meritano forse questi canti, come anche quelli dei minatori della Valtrompia, quelli dei briganti, e via discorrendo, una legittimazione in quanto patrimonio culturale, sebbene immateriale? Per ora, “accontentiamoci” di avere la più alta percentuale di patrimonio “materiale” Unesco al mondo: il resto si vedrà.

Ilaria Paoletti

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3 comments

paleolibertario 30 Novembre 2018 - 1:25

Questi riconoscimenti sono qualcosa di ridicolo, come i premi nobel, e vanno tutti in una certa direzione…

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Ugo 1 Dicembre 2018 - 6:58

Mi associo al commento di Fabio Bertoncelli, qui sopra. Unesco… puà! Abbiamo bisogno di cantonieri a chiuder buche per la strada, non di funzionari dell’Unesco.

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Antonio Vettore 2 Dicembre 2018 - 7:32

Che articolo pressapochista. Come sia possibile comparare il reggae alle musiche popolari regionali lo sa solo l’autrice. Il reggae ha riunito menti e anime in tutto il mondo, ha spinto verso la cultura rasta popolazioni che vivono al circolo polare artico. Ma rileggete quello che scrivete? Andate con le mondine va’.. canzoni famose in tutto il mondo che hanno cambiato la concezione di vedere le cose.. sicuramente

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