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Un popolo di avventurieri: Vincenzo Cicala, il Visconte corsaro nemico dei Turchi

by La Redazione
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Roma, 16 set – Figlio della nobiltà genovese, il Visconte Vincenzo Cicala nasce a Genova nel 1504, primogenito d’un’illustre famiglia storicamente composta da consoli, capitani, ammiragli e armatori.
Il mare inizia presto a scorrere nelle vene del giovane: in gioventù milita e combatte per Andrea Doria servendo l’esercito francese. Si distingue soprattutto per un suo fortunoso salvataggio a nuoto in occasione della battaglia di Portofino, quando, poco più che ventenne, sfugge alla cattura tuffandosi in mare armato di tutto punto, ma anche per l’impresa di Barberia del 1530, in cui cattura una nave carica di mercanzia. Da qui in poi dispone del comando di due galee e partecipa alla spedizione di Tunisi del giugno 1535. Dopo aver seguito l’imperatore Carlo V in Sicilia, si stabilisce a Messina fissandovi la base delle sue operazioni di pirateria a danno delle imbarcazioni turche e barbaresche. Il Cicala, infatti, è legittimato e sovvenzionato dall’impero per le sue incursioni nel mediterraneo contro le navi musulmane, tanto da diventare il terrore del Mediterraneo e dell’Egeo. Riporta numerose vittorie a Tunisi, Malta, Candia, Trapani, Favignana, Algeri, Maiorca ecc. spesso al soldo dei Gonzaga di Mantova, del Re di Sicilia e dell’Imperatore. Partecipa inoltre alla cattura del famigerato Dragut nei mari della Sicilia e salva la vita al Doria presso il forte genovese di Djerba attaccato dai Veneziani perdendo alcuni figli e nipoti per difendere la causa Genovese.
Nel 1538 partecipa alla conquista di Castelnuovo, alle bocche di Cattaro in Montenegro. Qui cattura inoltre la figlia di un Bey locale, per poi portarla a Genova e farla battezzare con il nome di Lucrezia e ricevere poi da lei il figlio naturale Scipione.
Il carattere del Visconte è tutto meno che docile, tanto da inimicarsi il suo maestro Andrea Doria, il quale addirittura lo ferisce al collo facendo partire un’archibugiata dalla sua galea. Solo Carlo V riesce a frenare la faida: l’Imperatore necessita infatti di entrambi i capitani per una spedizione contro Khayr al-Din Barbarossa, il famoso corsaro ottomano.
Nel 1540, a Messina, scoppia una violenta rissa tra il Cicala e alcuni cavalieri gerosolimitani con cui aveva attaccato briga sulle acque di Beit, per la spartizione d’un carico turco catturato: un cavaliere rimane gravemente ferito e un nipote di Vincenzo Cicala ucciso. Occorre un riparo di fortuna a Malta, dove il Visconte viene alloggiato con grandi onori e la sua nave riparata, a far placare il suo odio nei confronti dell’Ordine.
Gli anni seguenti vedono crescere sia la fama del corsaro Visconte che il suo volume d’affari. Molto fanno il lignaggio dei suoi collaboratori, l’influenza del fratello cardinale, i compiti di polizia marittima, il proclamato odio per i Turchi ottomani, oltre che la nuova veste di mercante e finanziere nell’intraprendente colonia genovese a Messina, molto proficua grazie ai traffici di grano, seta e spezie. Per tutte queste ragioni il Cicala è sempre più rispettato, tanto da ottenere il titolo di cavaliere di S. Giacomo della Spada.
Fino alla fine dei suoi giorni, il grande nemico del Cicala resta l’impero ottomano, nello specifico l’ammiraglio Dragut (da lui catturato anni prima), signore di Tripoli e viceré di Algeri al servizio del Sultano. La spedizione del 1561 contro questi si rivela una sciagura: la flotta del Cicala viene travolta da una tempesta. Grossa parte di questa naufraga sulle coste del Peloponneso e viene catturata dai Turchi. Il Cicala in persona, allora, arma in tutta fretta due navi e salpa insieme al figlio Scipione per soccorrere i suoi uomini. Tuttavia, appena fuori Trapani, entrambe le imbarcazioni non reggono l’attacco preparato dalla flotta di Dragut, comandata dall’ammiraglio turco di origini calabresi Uluç Alì, detto Occhialì. Il Visconte e suo figlio sono così catturati e portati prigionieri a Tripoli.
Da qui in poi la grande avventura del corsaro genovese si spegne in tragedia. Né il Papa, né l’Imperatore prendono veramente a cuore le sorti del Visconte. Nessuna somma di riscatto viene infatti offerta al vendicativo Dragut. Il Cicala e suo figlio vengono condotti a Costantinopoli. Scipione è trasferito al serraglio per servire sulle galee dell’impero Ottomano. Qui decide di tradire il padre e unirsi al nemico da lui sempre combattuto: abiurato, si converte all’islam, cambia il nome in Sinan Pascia, entra nei Giannizzeri per poi divenire in seguito Comandante Generale della flotta turca.
Vincenzo Cicala, imprigionato alle Sette Torri, muore in carcere sessantenne tre anni più tardi, nel 1564. La sua morte è avvolta dal mistero e ancora oggi dibattuta: c’è chi parla di un avvelenamento, chi di stenti e vecchiaia, chi del dolore per l’adesione del figlio all’islamismo e chi ancora di suicidio, anche se quest’ultima ipotesi sembra la meno probabile dato il temperamento del Visconte tutto tranne che arrendevole.
Ciò che è certo è che il Cicala esce di scena in maniera operistica, come un mitico personaggio di quel romanzo d’avventura che è stata la sua vita, costellata di assalti, amori, vittorie e sconfitte, quando nelle acque del mediterraneo e dell’Egeo le navi temute erano ancora quelle italiane.
Alberto Tosi

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