Roma, 13 giu – Ieri è scomparso Francesco Nuti: una morte oscurata dall’ingombrante decesso di Silvio Berlusconi, ma non per questo passibile di incuranza. Perché l’attore e regista toscano è una figura sottostimata dell’arte cinematografica.
Nuti, un maestro sottovalutato del cinema
L’unica colpa di Nuti è di essere emerso in un periodo storico in cui tutti, a manetta, hanno cominciato a dire – sicuramente con delle ragioni – che il cinema italiano era in crisi, quasi come se lo fosse in modo peculiare e assoluto. Un’affermazione che stona, anche negli ultimi trent’anni, con la percezione in termini di consensi che lo stesso cinema italiano continua a ricevere dall’estero, non certo inferiore a quello di altri paesi al mondo. Se si pensa solo ai tanto sponsorizzati “Oscar”, l’Italia è il Paese che – nella categoria film stranieri – ne ha presi di più negli ultimi trentacinque anni (quattro, tra Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, Roberto Benigni e Paolo Sorrentino). Peraltro, nell’opinione pubblica, il successo globale è diventato improvvisamente l’unica fonte di certificazione qualitativa di una pellicola italiana. Totò e Alberto Sordi (nazionali e non certo popolari all’estero) potevano essere maestri anche senza sfondare nel resto del mondo (al contrario di Vittorio De Sica, per intenderci, che popolare nel mondo lo era eccome), oggi qualsiasi regista o attore italiano che non abbia riscontri planetari non è nessuno, o meglio uno squallido interprete mediocre della mediocrità attuale.
In ogni caso, questa critica senza appello – che nel tempo diventa a parere di scrive sempre meno lucida – inizia proprio negli anni Ottanta del secolo scorso. Gli stessi che, quello sì, consacrano un Carlo Vanzina sempre bersagliato dalla critica salvo poi “miracolosamente” riabilitato dopo la sua dipartita. Atteggiamenti sbagliati entrambi, probabilmente. Nel caso di Nuti, una “riabilitazione” (ma sarebbe più correto definirla “abilitazione”) post-mortem sarebbe però d’uopo, vista la creatività estrema mostrata in quegli appena dieci anni di successo realmente massimo e il declino altrettanto vertiginoso nei dieci anni ancora successivi che precedono il tragico incidente domestico che, nel 2006, porta il regista toscano a passare gli ultimi anni di vita praticamente paralizzato e sulla sedia a rotelle. Dagli esordi alla regia con Casablanca, Casablanca del 1982, Nuti si mostra profondamente diverso dagli altri commediografi italiani, anche quelli a lui contemporanei (su tutti, Carlo Verdone) per il modo con cui “gioca” con la macchina da presa, con le luci, con i montaggi. e anche con i tempi comici. La regia in generale non è quasi mai canonica, classica o asciutta. Lo dimostra in un film in particolare, Caruso Pascoski (di padre polacco), uscito nel 1988, in cui il regista e attore toscano fa il bello e cattivo tempo tra l’interpretazione frizzante e le scene surreali che spesso mette in mostra. Siamo agli apici del successo: tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta la creatività di Nuti si “sfoga” con altri due cult. Il primo è Willy Signori e vengo da lontano (1989), e il secondo è Donne con le gonne (1991). Gli ultimi due acuti di un percorso che, da quel momento in poi, sarà sempre più decadente.
Un’esistenza drammatica e tormentata
Pare quasi una legge scientifica, quella che accomuna la comicità di professione alla tragicità della vita privata. Nuti in questo ricorda molto la figura di Peter Sellers, comico inglese tanto frizzante sulla scena quanto depresso al di fuori della macchina da presa. Il vizio dell’alcool non ha mai abbandonato Nuti, insieme a una depressione, anche nel suo caso, estremamente radicata. Dopo il flop di Occhiopinocchio (1994), il declino è irreversibile. Nuti sembra dedicarsi al puro commerciale, sia con Il Signor Quindicipalle (1998) che con Io amo Andrea (2000), e i risultati sono modesti. La depressione e la vita sregolata lo porteranno ad isolarsi sempre di più fino a che un tragico incidente domestico nel 2006 lo renderà disabile e incapace di proseguire nei suoi lavori. Gli ultimi 17 anni di vita raccontano di un uomo ormai malato, che ieri ci ha lasciato nell’indifferenza generale. Ma chissà che il vizio di riabilitare post mortem non gli dia gli onori che merita, visto che ce ne sarebbe anche bisogno, al posto di una critica che, sempre più spesso, è randomica, casuale e forse pure modaiola.
Stelio Fergola