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Quel Sigaro che dal 2006 è simbolo di Vittoria

by Stelio Fergola
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Adesso vinco io

Roma, 28 feb – Ultimo giorno di un evento speciale al cinema, con la proiezione di Adesso vinco io, film documentario su Marcello Lippi, i suoi trionfi con la Juventus e soprattutto il titolo di Campione del Mondo di quello storico 9 luglio 2006 a Berlino.

Adesso vinco io, il mito sul sigaro di una panchina vincente

Certamente, un po’ di apologia c’è. Ma è naturale che ci sia, visto che si parla di un mito assoluto della storia dello sport, italiano come mondiale. E così Adesso vinco io comincia con l’avventura in Cina. Dove Lippi, tanto per cambiare, stravince. Però presenta quei successi come una svolta avvenuta con il suo arrivo, mentre ad essere puntigliosi non è stato esattamente così, visto che il Guangzhou Evergrande, la squadra asiatica dove fu ingaggiato nel 2012, aveva appena vinto il suo primo titolo l’anno prima, intevenendo in modo massiccio sul mercato. In ogni caso, si trattò sempre di un lavoro eccellente, quello del tecnico viareggino. Per tutti il sigaro più famoso d’Italia e forse del mondo, se si parla di calcio. Sempre con lui, in molte, troppe occasioni. Lo stesso sigaro che dichiarò di fumare anche dopo il trionfo nella notte di Berlino quando conquistò la Coppa del Mondo. “Presi una fetta di torta e poi andai nella mia camera d’albergo, riguardandomi tutta la partita. Sigaro e bicchiere di vino alla mano”. Tabacco di lusso, tabacco ormai simbologia di due sole cose: la Vittoria e la Gloria.

Marcello Lippi raccontato come deve essere

C’è un po’ di concessione alla cultura dominante del gioco offensivo a tutti i costi, questo sì. La finale di Champions League contro l’Ajax del 1996 viene raccontata come un assedio, in realtà fu qualcosa di molto più “ambiguo”. Bianconeri che aspettavano e lancieri che tenevano il controllo del gioco. Il punto è: per fare cosa? Poco o nulla. La squadra di Lippi attese, e questa forse è una considerazione da non fare nel mondo dove se non attacchi sei un perdente, poi colpì- e furono mazzate – nelle ripartenze. Niente chiusure tipo fortino, questo no. Ma sicuramente attesa e ripartenza. In quel senso dominò assolutamente la partita, con dolori sonori per gli olandesi, che rischiarono di prenderne ben più della singola segnatura di Fabrizio Ravanelli. Lippi era così. Un istintivo, non uno schematico. Non aveva dogmi o filosofie a dominarlo, era lui a dominare le stesse. Cambiava in corsa le sue Juventus (più difensive le prime, decisamente più offensive le ultime, quelle delle tre finali perse) così come la sua nazionale. Capace tanto di contenere le offensive altrui quando necessario per poi far male ripartendo che dominando il gioco, come contro l’Ucraina nei quarti di finale di quello splendido mondiale. Gioco offensivo, gioco difensivo, macché. Lippi non aveva regole. Guardava anzitutto gli avversari e ciò di cui disponeva. Poi ragionava sul da farsi. Poteva andargli anche male, ovviamente, come è capitato perché nessuno è infallibile. Ma in ogni caso, il film racconta ciò che deve raccontare: il mito. Quello del Paul Newman più vincente della storia del calcio.

Stelio Fergola

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