Roma, 17 feb – Nell’ambiente cinematografico suole dire “buona la prima”: viene dunque da domandarsi perché mai alcuni cineasti abbiano cercato di riprendere in mano un film quando già il primo era un capolavoro. Eppure questo vizio – specialmente in quest’epoca di reboot e prequel – sembra essere sempre più diffuso. “Remake” a tutto andare quando le idee nuove mancano, spesso compiendo veri e propri crimini ai danni della settima arte. Questa top five è fatta per farvi arrabbiare: i cinque “remake” peggiori nella storia del cinema.
5) “City of Angels – La città degli angeli” – Los Angeles è associata nell’immaginario collettivo ad un clima solare, a Hollywood, ai “vincenti”. Gli “angeli“, esseri mistici metà uomini metà divinità, ci sono ma solo nel nome o come college di “Charlie”.
Qualcuno deve aver pensato che l’assonanza era sufficiente per ambientarvi il remake de “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. La storia è – grossolanamente – uguale nei due film: un angelo decide di diventare umano dopo essersi innamorato di una “mortale”. Ma se nell’originale tedesco il tema è trattato in maniera delicata, con numerosi flashback nella storia spesso tragica della capitale tedesca e, non da ultimo, l’angelo è interpretato dal recentemente scomparso Bruno Ganz nel rifacimento made in Usa l’essere divino ha la faccia spesso monocorde di Nicholas Cage e l’oggetto del suo amore è Meg Ryan post incontro col botulino. Ne avevamo bisogno? La risposta è no.
4) “Rollerball” – L’originale del 1975 era un film che utilizzava il fittizio sport per soli uomini duri del “rollerball” come “scusa” per parlare di un catastrofico futuro distopico in cui il pianeta, dopo l’ennesima guerra mondiale, si è divisa in corporazioni che si spartiscono la gestione dei consumi. Quello del 2002 non si sa bene dove vuol andare a parare: non ha la sottigliezza “politica” del precedente, non ha né gli attori né i caratteristi validi del film di Norman Jewison. Il buonismo la fa da padrone, il rollerball è adrenalinico ma sembra più il football americano che un’arena in cui i giocatori, come dei moderni gladiatori, rischiano la morte per “distrarre” la massa dalle trame dei governi. La colonna sonora, inoltre, è completamente composta di quel nu metal che tanto andava di moda nei primi del 2000, come a voler confermare l’intenzione di John McTiernan di puntare ai ragazzini drogati di videogiochi.
3) “Papillon” – Mettiamo un po’ di nomi in fila: Steve McQueen, Dustin Hoffman, Franklin J. Schaffner e Dalton Trumbo. Sono quelli principali che si possono ritrovare nei titoli della prima versione della biografia delle fughe di Henry Charriere dall’Isola del Diavolo, colonia penitenziaria francese degli anni trenta. Leggendoli, un qualsiasi regista si farebbe un bagno d’umiltà e continuerebbe la ricerca di soggetti originali. Invece no: Michael Noer decide di rifarlo “paro paro” e chiama a sè Charlie Hunnam (Sons of Anarchy, Green Street Hooligans) e Rami Malek e pre-Bohemian Rhapsody a prendere il ruolo che fu di Hoffman. La sceneggiatura è pressoché uguale a quella di Trumbo, con la differenza che i tratti più “crudi” sono stati censurati dando più risalto all’amicizia che nasce tra i due ladri in carcere cercando (come per “Rollerball”) di trovare un lato “digeribilie” per una storia altrimenti assurda e dolorosa. Gli interpreti sono bravi ma non all’altezza dei predecessori e non c’è nessuna novità rispetto al classico del genere carcerario di cui fu protagonista Steve Mc Queen. Non era meglio starsene a casa invece che dietro la cinepresa?
2) “Suspiria” – Il “nostro” Luca Guadagnino ha fatto il suo a girare la storia a tinte vintage col profumo di pesche penetrate da omosessuali alla scoperta del proprio corpo – e quello degli altri – in “Chiamami col tuo nome”. Ma l’opera di Dario Argento, forse, era meglio lasciarla sullo scaffale. Il film del 1977, pur con alcuni limiti, era innovativo: la simbiosi tra fotografia e colori del set, il tema, la colonna sonora dei Goblin, l’ambientazione. Parliamoci chiaro, la sola scena finale della protagonista che trova la stanza della strega suprema vale da sola tutto il film di Guadagnino. Che più che un horror sembra una sfilata di moda o il set di un videoclip (va riconosciuto che le canzoni utilizzate sono tutte perfettamente “a tema” con l’ambientazione storica):le attrici belle, diafane, ben vestite ma incapaci di esprimere alcuna emozione che sia necessaria ad un film horror. “Non c’è tensione, non c’è emozione, nessun dolore” si può dire prendendo in prestito le parole di Battisti. Tutto (pro)fumo e niente arrosto.
1) “Old Boy” – L’originale del cineasta sudcoreano Park Chan-wook (il secondo film della cosiddetta “trilogia della vendetta”) è a dir poco un capolavoro che ruota attorno ai temi della rivincita, del senso di colpa e del mistero. Choi Min-sik, l’attore che interpreta il protagonista, passa dalla follia contenuta alla commozione in un’alzata di sopracciglia. I colpi di scena non mancano, nemmeno la violenza propedeutica alla comprensione: perché mai rimaneggiare un film pressoché perfetto? Perché sei Spike Lee, e non hai niente da fare. La trama è la medesima: e se il regista caro agli afroamericani si fosse attenuto al canovaccio originale, magari il risultato sarebbe stato egualmente avvincente. Invece lui riesce comunque a rovinare un buon prodotto, un film che è stato (giustamente) paragonato ad una tragedia euripidea. Lee è americano fino al midollo e molto americano è il suo approccio ai dettagli della sceneggiatura che taglia nelle parti più “sottili” da afferrare, ma più importanti. Josh Brolin, la figura principale, ha la faccia intagliata da un pezzo di legno massello per tutti e 104 i minuti dell’opera: per chi ha amato l’originale, il remake di Spike Lee è una stilettata al cuore.
Ilaria Paoletti
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