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Roma non vuole melting pot: i limiti della tolleranza romana

by La Redazione
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roma gladiatoreRoma, 1 lug – È notizia di questi giorni, l’annuncio dell’allestimento presso il Museo Archeologico di Napoli di una intera sala dedicata ai culti orientali in età romana, anche approfittando delle importanti testimonianze provenienti da Pompei e dintorni. Reperti e oggetti che indicano una presenza diffusa dei culti di Cibele, Attis, Sabazio, Mithra, ma soprattutto Iside nel mondo occidentale e a Roma stessa: in quel «mondo romano globalizzato che dal II sec. a.C. con la dominazione forte dell’Anatolia portò Roma vicino all’Arabia e al Golfo Persico» secondo Valeria Sampaolo, curatrice del nuovo allestimento. «Si tratta di un argomento di grande attualità – ci indottrina Paolo Giulierini, ossia il direttore del Museo Archeologico Nazionale – perché se a scuola insegnano che le religioni si succedono nel tempo, la realtà è che nei secoli le persone si sono sempre contaminate con religioni diverse e all’abbisogna si ricorreva a questo o quella divinità, come accade anche oggi a Napoli, se pensiamo ai riti come quello delle fontanelle». Presentata in questi confusi termini – che denotano una sconcertante ignoranza del funzionamento e struttura del sacro propriamente romano – pare quasi che il mondo religioso latino, con divinità fungibili tra loro, quasi fossero beni di consumo, sia stato il precursore dell’odierno multiculturalismo indifferenziato. Di qui, il neppure tanto velato consiglio ad abbracciare ogni diversità e un sottile invito al diritto di cittadinanza per ogni estraneo che giunga sugli italici lidi, secondo il costume che sarebbe stata proprio ai nostri avi.

Eppure i limiti e i confini – ben precisi – di ciò che fu l’espressione della religiosità romana (specie in epoca arcaica e repubblicana) pur nella mentalità generalmente tollerante nei confronti degli altrui usi e riti, paiono chiarissimi, anche se sono, evidentemente, ignorati dai più. Ed essi testimoniano che l’attuale sconcertante confusione di etnie, popoli e culture religiose sarebbe stata vista come una forma di aberrante superstitio (cioè l’eccessivo attaccamento ad un’idea, pratica o sentimento del culto) e come tale non avrebbe avuto alcun peso nella società romana.

D’acchito, sarebbe facile osservare come per accedere al sacerdozio pubblico romano (ossia i quattuor amplissima collegia sacerdotum : Pontefici, Auguri, Quindicemviri Sacris Faciundis, Septemviri Epulones Iovis) o ad altri sodalizi e cariche religiose (come quelli dei Fratelli Arvali o dei Feziali, Salii, delle Vergini Vestali, i Flamini etc.) occorreva godere della piena cittadinanza romana. Al pari, del resto degli altri principali protagonisti del culto pubblico; cioè i magistrati: consoli, pretori, edili i quali erano chiamati, nelle maggiori feste pubbliche, a “parlare” con gli Dèi in nome di tutta la comunità romana e potevano essere eletti solo tra i cives romani. Si trattava di un precetto così chiaro a tutti da non doversi neppure redigere per iscritto; tant’è che solo a seguito della perdita della cittadinanza romana (cioè ad esempio quando si veniva catturati dal nemico – istituto del postliminium – o si veniva esiliati in seguito ad una condanna penale particolarmente grave) si decadeva, generalmente, dal sacerdozio occupato. Si pensi poi che le sacerdotesse del culto di Cerere-Demetra ammesso a Roma, dovevano essere di origine greca (esse erano reclutate in Magna Grecia o in Sicilia) ma cui si concedeva, non appena nominate al sacro officio, immediatamente la civitas romana. Dunque una regola di natura squisitamente etnica che aveva una preciso riflesso anche sacrale: si diveniva sacerdoti del culto pubblico esclusivamente e proprio in quanto si era figli di cittadini romani o si possedeva la cittadinanza.

Ma non basta. Chi era ammesso a prendere parte al culto pubblico degli Dèi romani, cioè a presenziare agli atti cultuali compiuti nelle feriae publicae (feste pubbliche) inserite nei calendari predisposti dai Pontefici? Solo i cives romani, senza ombra di dubbio. Per quanto tale circostanza possa sorprendere i più, lo straniero (e lo schiavo) ne erano esclusi. Irrimediabilmente. Le fonti son molto chiare: così, ad esempio, all’atto della celebrazione dei Ludi Megalenses (introdotti nel 194 a.C.) ogni anno, tra il 4 e il 10 aprile, in onore della Magna Mater le formule recitate dai Quindicemviri, si aprivano con l’esplicito invito agli schiavi di allontanarsi all’inizio della celebrazione dei giochi. In epoca giulio-claudia, l’imperatore Claudio, come ci informa Svetonio nella sua biografia del princeps, aveva stabilito che non appena si fosse osservato un uccello di cattivo augurio, si dovesse procedere immediatamente alla recitazione di una preghiera propiziatoria, ch’egli stesso come pontefice massimo si sarebbe incaricato di declamare dalle tribune (rostra) del Foro previa cessazione di ogni attività lavorativa nei pressi e allontanamento degli schiavi. Un lemma di Festo indica come un littore fosse incaricato in certi riti (purtroppo non specificati) di pronunciare un comando allo straniero (indicato con il vocabolo hostis, termine ambiguo che prima ancora di designare “il nemico”, deputava “l’ospite”, significativamente), allo schiavo, alle donne maritate e alle giovani figlie di andarsene. La c.d. constitutio Antoniniana, cioè l’editto di Caracalla che nel 212 d.C. estese a tutti gli abitanti liberi dell’impero la cittadinanza romana, precisava che in tal modo si “condurrà verso i [culti] degli Dèi [gli uomini]”(papiro di Giessen, 40, I): un’estensione per editto ad ogni straniero del cultus deum, del tutto pleonastica ove non fosse esistito un preciso divieto per gli stessi di onorare la divinità protettrici dell’Urbe.

Si potrebbe continuare ad elencare molti altri casi noti, senza mutare il risultato. Tale circostanza, incidentalmente, spiega perfettamente per quale motivo, tra i tanti altri, nel culto propriamente romano non potesse esservi spazio né per religioni di natura misterico-soteriologica né per percorsi iniziatici di alcun tipo, con buona pace di certi odierni pseudo-occultisti. Riservato, nascosto e segreto non sono sinonimi di iniziatico e misterico: confonderli è un errore tutto moderno. Possiamo però pensare a singoli individui o anche delegazioni di cittadini stranieri (ad esempio, ambasciatori con il loro seguito) che si recassero a pregare nei templi romani? No, non era consentito. Lo provano molte notizie riferite da Tito Livio nella sua monumentale storia di Roma: diplomatici e persino re stranieri dovettero sempre domandare preventivamente un permesso speciale al Senato. Solo una volta ottenuto il via libero, essi potevano addentrarsi nelle sedi sacre dell’Urbe, per onorarvi le relative divinità romane.

Beninteso: a testimonianza della straordinaria benevolenza e grandezza d’animo romane, ciascun uomo, fosse libero o meno, straniero e non, poteva entrare di norma in un qualsiasi tempio per visitarlo. Ma, di certo, non per pregarvi gli Dèi di Roma. Siamo assai lontani, dunque, dalle grottesche vicende che hanno accompagnato, qualche tempo addietro, la visita a Roma del presidente dell’Iran, con tanto di censura di statue al Museo Capitolino, spesso raffiguranti divinità, in nome del rispetto per le altrui credenze. C’è poi un’altra domanda fondamentale cui bisogna rispondere Per chi pregavano i romani? A favore di chi e per cosa, erano indirizzate le loro richieste, preghiere, formule, i loro riti e offerte (sacra) nel corso delle cerimonie pubbliche? Ai Quirites tutti, al popolo Romano, alla sua buona salute e alla sua benefica forza. L’altro, lo straniero, il suo destino e le sue pene, non sembrano aver molto spazio nei voti romani : né in quelle pubbliche, né a maggior ragione nel culto privato, ove gli Dèi della famiglia di sangue occupano le parole e i pensieri del pater familias. Nulla dunque a che vedere con l’ordalia di parole, spesso prive di sostanza autentica, rivolte al cosmo intero indifferenziato in nome di una presunta fratellanza universale, cui assistiamo oggidì in alcune liturgie di massa, occidentali e non.

Quanto infine alla questione dell’introduzione di culti orientali estranei alla Roma prisca, l’esame della documentazione disponibile conduce a risultati assai differenti da quelli suggeriti nell’incipit del nostro breve scritto. È ovvio come in questa sede non si possa discutere nei particolari le diverse modalità e tempi di introduzione delle religioni orientali (cristianesimo incluso) o le caratteristiche proprie a ciascuno di questi culti. Sarà però utile ricordare come in ogni caso, Roma ponesse precise regole, pur in un’atmosfera di generica tolleranza. Anzitutto, molte volte interveniva il Senato o l’imperatore a vagliare preventivamente che il nuovo culto non recasse danno allo spirito del cittadino romano o non costituisse un turbamento nell’ordine sociale e morale della cittadinanza. Non sempre, però: ad esempio non risulta che le autorità romane si siano mai espresse nei confronti del culto mitriaco, ufficialmente; sicché esso rimase confinato al culto privato dei suoi aderenti. Ma quand’anche vi fosse stata un’accoglienza normativamente regolata, essa aveva precisi confini spaziali e sacrali, come il divieto di introdurre i sacra peregrina (vale a dire i culti stranieri) all’interno del pomerium: una regola cui derogò solo l’imperatore Caracalla (ma siamo già in un’epoca di decadenza) con l’erezione del Tempio di Iside sul Quirinale nel 215 d.C. e che trovava, peraltro, un preciso corrispettivo, come ci dice Festo, nell’impossibilità per i re stranieri o per le ambasciate di varcare quel santo confine.

Roma stessa era una continua, ininterrotta alternanza di spazi sacri e profani: ma solo all’interno di luoghi consacrati (templa) dall’opera degli Auguri era possibili riunire le assemblee popolari allo scopo di eleggere i magistrati, per votare le leggi o per giudicare le persone per i crimini più gravi. Anzi, al di fuori dell’Ager romanus (che era costituito dal territorio circondante immediatamente l’Urbe e che nel tempo, quand’anche esteso per vie delle conquiste, non coincise mai con i confini esterni romani) non era possibile porre in essere alcuna attività sacra pubblica: per questo – come Marco Furio Camillo, spiegherà al popolo che voleva trasferirsi a Veio dopo la presa di Roma da parte dei Galli nel 390 a.C. – Roma non poteva che sorgere là dove gli Dèi ne avevano deciso la nascita e fondazione, per questo non doveva essere abbandonata. Idea impossibile da conciliare con quella di un’indifferenziazione tra luoghi e persone propria del moderno pensiero, laddove la Cina equivale alla Francia, il nigeriano, all’australiano: sì che, ad esempio, per l’uomo romano, l’apertura della porta santa per il Giubileo straordinario, avvenuta al di fuori dalla Città del Vaticano, ad opera del pontefice Francesco, sarebbe stata normativamente e sacralmente un’empietà gravissima. Per questo, ancora, sarebbe impossibile concepire Roma come un “calderone di differenti culti e culture” (parole di Valeria Sampaolo). La lezione che ci ha tramandato l’Urbe, è come si possa e debba mantenere una marcata diversità, pur in un’ottica universalistica abbracciante ogni luogo e nazione del mondo conosciuto (secondo la concezione dell’imperium come missione divina del popolo romano). Non solo è possibile, ma necessario e doveroso.

Stefano Bianchi

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Paolo Insanity 4 Luglio 2016 - 9:53

Attendo con ansia il “sacro” momento in cui gli Déi mi imparranno di rifilare delle scarpate nel naticume di sta gentaglia. Gente che fa di tutto per distruggere la sacralità religiosa dei popoli indoeuropei facendoli discendere, a seconda della moda del momento, da alieni, scimmie, rettili, invertebrati, ecc.

Noi discendiamo dagli Déi e chiunque non sia interessato può andare nella civilissima africa a far amicizia con i propri antenati antropomorfi. Purché non vengano poi a piangere sulle nostre spalle quando si troveranno di fronte al razzismo dei negri nei confronti dei bianchi.

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