Seconda parte della nostra inchiesta sul tema della disinformazione e delle fake news: qui la prima puntata
Roma, 1 giu – Le campagne mediatiche e i continui allarmi lanciati dalle istituzioni nazionali e internazionali per far fronte al fenomeno della disinformazione (la diffusione su internet di informazioni capziose o false allo scopo di veicolare i comportamenti e le credenze degli utenti in una precisa direzione) hanno come conseguenza il rafforzamento della fiducia negli, se non addirittura l’esclusività degli, organi di informazione ufficiali (televisioni, giornali, ecc.) e la legittimazione, seppur implicita, di un atteggiamento fortemente censorio e punitivo nei confronti delle notizie veicolate dal web. Questo è particolarmente grave: l’idea che sia necessario – come si sta già facendo – attuare programmi di controllo delle informazioni ha un sapore fortemente antidemocratico; inoltre, attribuire sempre maggiore fiducia agli organi di informazione ufficiali può risultare fuorviante nel momento in cui si tiene conto che l’Italia presenta notevoli criticità per quanto riguarda la libertà di stampa.
Le cellule russe
Al di là di queste considerazioni, bisogna tenere conto del meccanismo di psicologia sociale che soggiace alla retorica della disinformazione, un meccanismo che è stato ampiamente utilizzato durante tutta la Guerra Fredda per colpire e screditare il comunismo (sovietico) e per instillare nella popolazione un’autentica paranoia, che ha presto portato a un vero e proprio isterismo collettivo. Durante la Guerra Fredda, i servizi segreti statunitensi convinsero la popolazione, attraverso specifiche campagne propagandistiche, che l’Occidente (gli USA ma anche l’Europa non comunista) fosse pieno di cellule sovietiche che avevano lo scopo di scatenare all’improvviso, dopo aver tessuto un’adeguata tela sotterranea, una rivoluzione comunista che avrebbe dato all’URSS e all’ideologia comunista il dominio sull’Occidente. Nacque così, anche grazie alla letteratura e al cinema di spionaggio (si pensi ai libri di Ian Fleming e di John Le Carré, per citare due autori paradigmatici), la fobia sociale del complotto comunista, fobia che, se non ingiustificata, era del tutto esagerata: come è ormai noto, se è vero che durante i quarant’anni di guerra fredda i servizi segreti russi e statunitensi (i secondi appoggiati dai servizi europei) continuarono a battersi per il controllo delle menti e delle economie, è anche vero che le cellule comuniste presenti sul territorio americano e in Europa non avevano assolutamente la forza di organizzare e imporre una rivoluzione mondiale (e di ciò l’URSS era perfettamente conscia, dato che già dopo il secondo conflitto mondiale aveva abbandonato l’idea della rivoluzione diffusa per assumere, invece, un atteggiamento difensivo e di chiusura); la retorica delle cellule comuniste era necessaria per mantenere il regime capitalista e per spingere i cittadini verso specifiche scelte elettorali (tale retorica era costantemente usata nelle campagne presidenziali statunitensi).
Oggi quella retorica sembra essere resuscitata, solo che a differenza che negli anni ’50-’90 non si parla più di cellule comuniste (visto che il comunismo sovietico non esiste più) ma di cellule informatiche russe; per il resto, nulla è cambiato: se prima, stando a ciò che diceva la propaganda statunitense, le cellule comuniste facevano circolare volantini, captavano informazioni, tessevano relazioni umane o istituzionali, ecc. al fine di progettare una rivoluzione comunista mondiale, oggi le cellule informatiche fanno circolare messaggi sul web, captano informazioni non nei bar ma (più o meno legalmente) su internet, tessono relazioni informatiche o virtuali, ecc. al fine di favorire gruppi o partiti di estrema destra e antieuropeisti la cui ascesa sarebbe conveniente, secondo certi analisti, per la politica estera russa.
Il Russiagate
Questo, almeno, è ciò che emergerebbe nell’ambito delle indagini sul Russiagate e sulle ingerenze russe nelle elezioni europee. Sin dall’ultima campagna presidenziale statunitense è stata avanzata l’ipotesi che la Russia abbia agito attraverso il web per pilotare le elezioni statunitensi, cioè per pilotare le scelte politiche degli utenti verso il Partito Repubblicano e in particolare verso Donald Trump (poi eletto Presidente USA). L’esistenza di interferenze informatiche russe nella campagna presidenziale è stata dimostrata ma, con buona pace dei democratici, la tesi, subito ventilata dalle opposizioni, secondo la quale l’attuale Presidente USA sarebbe stato non solo a conoscenza ma avrebbe anche favorito tali ingerenze non è stata provata, come risulta dalle indagine del Procuratore Speciale Mueller, il quale, nel suo rapporto finale sul caso ha affermato che «il rapporto non conclude che il presidente abbia commesso [il] crimine, ma neanche lo esonera» (conclusione strana, se si considera il principio di innocenza fino a prova contraria). La conclusione delle indagini è stata salutata con favore dai repubblicani, che hanno gridato alla caccia alle streghe da parte dei democratici; tuttavia, la tesi dell’ingerenza russa è diventata ormai un fatto assodato.
Il caso Russiagate sembra riguardare anche l’Europa, come dimostrerebbero i dati raccolti dal sito americano FiveThirtyEight.com: stando alle analisi di questo sito, esisterebbero alcuni soggetti informatici, chiamati troll, riconducibili all’International Research Agency, agenzia informatica con sede a San Pietroburgo avvolta nel mistero ma quasi sicuramente legata ai servizi segreti russi, che diffonderebbero sul web messaggi e video provocatori e capziosi (talvolta falsi) il cui scopo sarebbe di avvicinare gli utenti a posizioni xenofobe, antieuropeiste e populiste, favorendo più o meno direttamente gruppi di estrema destra e i due partiti italiani della Lega e del Movimento 5 Stelle, la cui ascesa politica sarebbe, dicono gli esperti, conveniente per il Cremlino. La denuncia di questo complotto informatico è arrivata non soltanto dal sito statunitense appena citato ma anche dalle dichiarazioni di due ex troll pentiti e dalla giornalista Lyudmila Savchuk, la quale si sarebbe infiltrata per due mesi e mezzo in una “fabbrica di troll” per poi svelarne il funzionamento al mondo (Savchuk parla di grandi stanzoni pieni di PC in cui lavorano decine di persone, sezioni, uffici, riunioni, ecc.).
Quale complotto?
Non si può negare l’esistenza di questi troll, che sono stati individuati e classificati; né si può negare che questi soggetti informatici diffondano messaggi che veicolano specifici contenuti politici: questi sono fatti. Tuttavia, bisogna guardarsi dall’accettare supinamente la tesi di un complotto informatico russo; è molto più saggio, invece, assumere un atteggiamento prudente se non addirittura diffidente. Tale atteggiamento è dettato dalla consapevolezza che, come dimostrano gli studi di storia contemporanea, quando ci si muove nell’ambiente dei servizi segreti si è su un terreno precario e confuso, che rende qualsiasi tesi, conclusione o anche soltanto ipotesi fragile e di difficile verificazione (o falsificazione) e che può far apparire una cosa come il suo esatto contrario. Nel caso in questione, partendo dalla consapevolezza che denunciare un complotto a favore di qualcuno significa, specialmente se si dimostra che quel qualcuno è a conoscenza del complotto o che addirittura lo favorisce, screditare quel qualcuno, non si può escludere che la denuncia dell’attività informatica russa non possa essere un’operazione di qualche servizio segreto che ha lo scopo di screditare quei partiti e quelle posizioni politiche che sarebbero favoriti dall’attività dei troll russi. In tal caso, non esisterebbe alcun complotto informatico russo o, per essere più chiari, esisterebbe soltanto come invenzione da parte di qualche servizio segreto antirusso. Si badi: non si sta dicendo che è così; si sta semplicemente sottolineando che nel mondo dei servizi segreti (e anche di internet) tutto è possibile.
Edoardo Santelli
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