Roma, 26 gen – Archiviata la vicenda grottesca di un ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca privo di laurea, la scuola italiana è presto tornata a fare i conti con le questioni di ordinaria amministrazione. Fra le quali, ahinoi, spicca la querelle dei trasferimenti. Ora, non è che si vogliano minimizzare le sofferenze patite dai colleghi – sì, anche chi scrive è un professore – solo che il sottoscritto è fermamente convinto sia giunto il momento di pronunziare un solennissimo “basta!”. Basta con la retorica del povero insegnante, tendenzialmente meridionale, costretto ad emigrare come nemmeno gli italiani negli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo. Finiamola con il piagnisteo. Quanto ci vorrà ancora a capire che l’autocommiserazione rappresenta una delle due gambe dell’annichilimento della dignità della professione docente?
La prima, quella più maggior peso ideologico, è rappresentata dalla furia demolitrice che ha investito le cattedre negli anni Sessanta e Settanta in ragione della caratterizzazione inevitabilmente gerarchica connessa alla relazione docente-discente. Intervenire sulla prima richiederebbe una operazione di vastissimo respiro, l’autentico Santo Graal di una qualsivoglia formazione definibile di Destra, o conservatrice, o anche liberale – ma in senso ottocentesco e nell’accezione per la quale erano liberali Wilhelm von Humboldt o Berto Casati . Per intenderci: liberali che prepararono il terreno alla sintesi pedagogica e filosofica sottesa alla riforma di Giovanni Gentile. Tanto il primo, padre di quella Università di Berlino destinata a fungere da modello per tutti gli atenei europei degli ultimi due secoli, quanto il secondo, padre del primo modello scolastico italiano post-unitario, riconoscevano il primato del rapporto sovranamente libero fra docente e discente. Rapporto gerarchico, certo, ma in quanto rapporto spirituale in senso eminente, ossia luogo privilegiato di costruzione e rivelazione dello Spirito – come meravigliosamente esplicitato nella pedagogia attualistica gentiliana. Spirito che, com’è ovvio, non distingue i propri alunni sulla base della laurea, così che, a ben guardare, docente e discenti appaiono uniti, indissolubilmente uniti in un vincolo immateriale che non conosce più distinzioni di sorta ed eleva tutti quanti ad un livello più alto.
Democrazia realizzata, dunque? Socialismo reale a partire dalle aule? Verrebbe quasi da pensare che assecondando questa china si possa arrivare a suonare la stessa musica tanto cara alle orecchie di coloro che, da Don Milani in poi, eressero lo stesso Gentile ed il gentilianesimo a loro nemico giurato, e la disobbedienza in classe a loro vessillo. E invece no, nemmeno per sogno. Don Milani ed i suoi epigoni sapevano benissimo quel che dicevano. Compresero, costoro, che la democrazia di Gentile è la democrazia del logos, non quella del demos. Logocrazia, dunque. Ed il logos non concede sconti né scorciatoie. Non giudica né decide sulla base dei consensi o in vista dell’aumento degli stessi. Pur essendo de iure per tutti, finisce con l’essere de facto per pochi. Ed il motivo è semplice: quella del logos è una via faticosa. “Fatica del concetto”, la chiamava il vecchio Giorgio Federico Guglielmo Hegel, colui che praticamente insegnò a Gentile (quasi) tutto quello che c’era da sapere in fatto di filosofia. E la fatica, com’è noto, piace a pochi. Ed ancora meno piacciono coloro che la insegnano e finiscono pertanto con l’imporla. Il tanto sbandierato “dialogo formativo” esiste, eccome, ed anche ad un livello assai più profondo di quanto non scrivano i pedagogisti e didatticisti di scuola anglosassone; solo che la relazione, l’autentica relazione, assume i contorni di due volontà che cozzano, una per trovare se stessa (il discente), l’altra per aiutare l’altra a trovarsi (il docente). L’esito di questo scontro, nel quale il giovane impara dall’adulto riconoscendolo come limite invalicabile alla propria espansione, è propriamente la formazione, ossia quella parola magica sulla quale i Greci prima, ed i moderni poi, tanto si sono affannati.
La post post-modernità, della quale noi siamo testimoni oculari, ha declinato questa ricerca mediante la sistematica e scientifica delegittimazione dell’atto educativo – svilito di volta in volta a pratica di misurare e quantificare o a semplice palestra dei valori pacifisti e solidaristi del momento – tanto quanto mediante la sistematica e scientifica delegittimazione dell’educatore. E qui vengo finalmente alla seconda gamba della quale si diceva più sopra. Demoralizzati, massificati, irrisi, colpevolizzati ma, soprattutto, sindacalizzati: i docenti di oggi sono ridotti all’ombra di quello che erano appena quarant’anni fa. La proletarizzazione della classe docente è talmente sotto gli occhi di tutti che non c’è bisogno di dirne oltre. Sotto questo punto di vista, si tratta senz’altro di un indubbio successo postumo ottenuto da Gramsci e dai suoi allievi, che nel professore videro il sacerdote laico dell’odiata borghesia, l’uomo destinato a custodire, tramandare e garantire la prosecuzione dei valori e del modus vivendi sul quale si appoggiava la differenza di classe. E, difatti, quale inconfessabile soddisfazione deve aver rappresentato, per i socialisti e comunisti di ogni tempo, l’avere assistito alla devozione con la quale la schiacciante maggioranza dei professori italiani ha scelto, da quarant’anni a questa parte, di dotarsi volontariamente e convintamente di strumenti di lotta – l’appartenenza sindacale, lo sciopero, le manifestazioni di piazza sempre più colorate e sempre più degradanti, la disobbedienza alle leggi (come nel caso dei boicottaggi delle prove INVALSI) – fino a quel momento prerogativa della classe operaia?
E torniamo così, circolarmente, hegelianamente e gentilianamente, al punto iniziale: l’autocommiserazione. Non c’è futuro per una classe docente che sia priva di coscienza di classe. Così parlerebbe un bolscevico dei nostri giorni. Personalmente trovo questa affermazione corretta solo in parte. Non c’è futuro per una classe docente che sia priva di coscienza. Ecco di cosa abbiamo bisogno. E la coscienza, da Socrate in poi, si esprime in quel che il nostro daimon, il nostro spirito – di nuovo questa parola – ci ordina di fare. Ed il daimon, immancabilmente, richiede fedeltà a se stessi, fedeltà alla propria comunità di destino, fedeltà alle leggi del proprio paese. Le classi sono niente. Le comunità nazionali sono tutto. Ma questa è un’altra storia.
Francesco Forlin
2 comments
Bellissimo articolo.
Complimenti
Jean
D’accordo col testo!