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I diritti individuali al di sopra delle decisioni: ecco le cause della crisi della democrazia

by La Redazione
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democraziaRoma, 26 gen – Stando ad un recente sondaggio commissionato da una nota agenzia di ricerca politica e sociale, quasi l’ottanta per cento degli italiani si direbbe a favore del cosiddetto “uomo forte”, esprimendo giudizi estremamente favorevoli sull’operato di Donald Trump e Vladimir Putin. Immediata, è partita l’accorata riflessione delle vestali del verbo costituito – ossia sancito dal Decalogo della Costituzione della Repubblica Italiana – sui rischi connessi all’oblio della dittatura fascista, delle leggi razziali, dell’ingresso in guerra e così via. Ora, al di là del fatto che già paragonare Trump a Putin, e questi a Mussolini, appare quantomeno azzardato quando non chiaramente pretestuoso, il fatto centrale è l’assenza di una adeguata riflessione sulla natura e sul senso del potere.

L’essenza della politica, di più: l’essenza dello stesso riconoscimento intersoggettivo stante alla base non della sola politica in senso stretto, ma dello sviluppo della persona umana nel senso più ampio, consiste in poco altro che legge e potere. Così si esprime chiaramente Hegel, il maggiore filosofo politico del diciannovesimo secolo, e così ribadirà in forma ancor più chiara C. Schmitt, il maggiore filosofo del diritto del ventesimo secolo, imperniando la sua riflessione politica sulla coppia amico-nemico e sulla conseguente centralità della decisione. E’ molto interessante sottolineare questo punto: più si procede in questa direzione, più ci troveremo lontani da quello che oggi chiamiamo democrazia.

Nei paesi occidentali la democrazia è normalmente associata a un sistema in cui i cittadini sono in grado di monitorare il governo e dove si suppone che il potere segua una direzione bottom-up piuttosto che una top-down. In questo caso, il riconoscimento riguarda più gli individui, che le istituzioni, che molto probabilmente vengono relegate a svolgere il ruolo di quello che potremmo definire come un arbitro, facendo in modo che le regole comunemente decise vengano ben rispettate da tutti gli attori coinvolti nella partita. Tuttavia, è possibile prendere in considerazione l’ipotesi che la nostra attuale declinazione della democrazia possa semplicemente rivelarsi sbagliata. Bloccati da innumerevoli vincoli e confini – teoricamente lì per garantire che nessuno, e soprattutto i governi, possa prendere una decisione senza tener conto dei diritti degli individui – ci troviamo a fronteggiare una situazione particolare. A mio parere, che ho il piacere di condividere nel modo si spera più provocatorio possibile, in qualche modo è successo che, nel mondo occidentale, la coscienza della complessità si sia trasformata in infatuazione dell’incapacità di decidere. In quello stesso momento, siamo passati dalla politica della correttezza al politicamente corretto, il che significa aver reso le forme più importanti dei contenuti. In una tale società il riconoscimento non significa altro che l’inclusione formale, indipendentemente dai contenuti da condividere in quanto questi tendono inevitabilmente a separare le persone in base al loro patrimonio culturale e religioso.

Sembra quindi fondamentale sottolineare l’importanza di qualcosa che, al contrario, molti filosofi occidentali e pensatori hanno cercato di incolpare, e molto spesso in nome della democrazia: il potere. M. Foucault, per esempio, sottolinea il legame esistente tra potenza, controllo e violenza (un collegamento singolarmente presente in tedesco, dove la stessa parola Gewalt si riferisce a potere ed a violenza). Lo fa al fine di esorcizzare il concetto stesso di crimine, marxianamente inteso come la traduzione laica del peccato usato dai governi per indebolire e perseguitare coloro che per vari motivi non si comportano come parti ordinate del corpo sociale.

Su un piano distinto, ma di fatto contiguo, molti dei maggiori intellettuali contemporanei possono affermare di fatto l’intrinseca inattualità del sistema occidentale di leggi, che segue il punto di vista del Corpus Iuris Civilis, poiché rifiuta fin dall’inizio di usare le leggi per trovare un punto di mediazione tra i due contendenti – come per esempio accade nella tradizione cinese. Al contrario, il diritto romano si propone di separare il bene dal male, il che significa, ovviamente, che i romani erano abbastanza sicuri che un bene in sé, così come un male in sé, esistessero davvero e fossero lì per essere visti e giudicati. Da chi? Dallo Stato, ovviamente, nella persona delle istituzioni preposte ed autorizzate dalla legge ad esercitare la auctoritas. E’ molto interessante seguire come questo punto di vista sia passato direttamente nella civiltà cristiana, dove ciò che a Roma si chiamava mos maiorum, l’ethos di coloro che sono venuti prima – si trasforma in volontà di Dio. Anche se il cambiamento è chiaramente notevole, possiamo osservare che in entrambe le civiltà amministrare la legge equivale a giudicare, a separare. Ancora una volta è utile il raffronto con la parola tedesca per giudizio – Ur-Teil – che letteralmente significa separazione originaria.

Forse Foucault ha davvero ragione su almeno un punto: vi è eccome una relazione tra il potere, l’ordine e la legge. Questo è ciò che gli attuali teorici di un diritto “debole” lamentano, quando sottolineano come problematica la convivenza tra questo punto di vista “romano-cristiano” e democrazia contemporanea. Sono d’accordo. Solo che forse negli ultimi decenni si è cercato di risolvere questo problema lasciando cadere il corno sbagliato del dilemma. Forse non è il nostro patrimonio romano e cristiano quello da mettere da parte: forse è la democrazia contemporanea ad essere sia causa che effetto della situazione di crisi della quale l’Occidente ha scelto da solo di gravarsi. Il sondaggio di cui sopra lascia tuttavia ben sperare.

Francesco Forlin

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Alessandro Maurizi 28 Gennaio 2017 - 12:09

Concordo praticamente su tutti i punti. Fin da bambino sentivo cantare le lodi della costituzione che aveva posto il Governo alla mercé del parlamento perché memori della dittatura fascista e fin da allora mi sembrava una giustificazione sbagliata, se non altro perché proprio l’assenza di autorità da parte dello stato, oltre al biennio rosso, aveva contribuito all’affermazione del fascismo. Provocatoriamente rilancio: è il caso di prendere in considerazione una contesa politica senza partiti, se un giorno fosse possibile? Un giornalista controcorrente, Maurizio Blondet, anni fa ipotizzò come cura per il sistema democratico, la riduzione dei compiti del parlamento: discussione e modifica dei Codici (civile, penale, ecc), gli unici esempi di legge generale ed astratta, e poco altro. Sarebbe un discorso molto lungo e sarebbe interessante valutarne l’indice di gradimento popolare.

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