Roma, 26 gen – Viviamo un tempo dove l’antirazzismo è l’unica medaglia che sembra essere necessario appuntarsi al petto, dove chiunque muova una qualunque critica all’immigrazione viene automaticamente bollato come demoniaco, mostruoso, antiumano, in termini poveri: “cattivo”. Alle volte quindi vale la pena di andare a tirare fuori anche storie presenti o passate, per rispolverare la reale dimensione umana dei “buoni”. L’onda di piena del politicamente corretto, dieci anni fa, non era ancora l’altissima marea vischiosa e soffocante che è ai giorni nostri, ma già ingrossava gli argini della società civile in forme talvolta devastanti. E proprio dieci anni fa la vicenda di Simon Mol, giornalista e attivista antirazzista, giungeva alla sua fine.
Al secolo Simon Moleke Njie, Mol nacque a Buéa, in Camerun, nel 1973. Nel 1999, affermando di essere vittima di persecuzioni per la sua militanza politica e l’attivismo giornalistico a sostegno dei diritti umani, chiese asilo politico alla Polonia, che glielo concesse l’anno successivo. Mol si trasferì dunque a Varsavia, dove da subito divenne un astro nascente, riconosciuto e benvoluto, nei circoli della sinistra polacca. Assunto come giornalista per il periodico anglofono The Warsaw Voice, Mol si dedicò con particolare passione allo scottante tema del razzismo, nel suo nuovo Paese, guadagnandosi la stima di Amnesty International e venendo perfino insignito, nel 2003, del prestigioso premio come “anti-fascista dell’anno”. Nel 2005 organizzò una conferenza di protesta contro un articolo apparso in un giornale polacco che attribuiva una parziale responsabilità nel diffondersi dell’Aids in Africa al mancato utilizzo del preservativo da parte degli uomini africani, che in questa maniera contagiavano anche le proprie mogli: Adam Lesvczynski, autore del pezzo sotto accusa, venne criticato da Mol, che lo definì razzista e discriminatore.
Solo un anno dopo, nel 2006, cominciarono i pettegolezzi, e infine le conferme certe, di donne più o meno conosciute sulla scena progressista polacca che sostenevano di aver contratto il virus dell’Hiv dopo aver fatto sesso non protetto proprio con Simon Mol. Il giornalista rispose denunciando una macchinazione contro di lui, intrisa di pregiudizio nei confronti dei neri: “Tacciarti di essere sieropositivo è l’ultima arma che il tuo nemico può usare contro di te, se sei africano”. La polizia polacca rifiutò a lungo di indagare in merito, per timore delle ripercussioni dovute alle connessioni politiche di Mol, ma il numero delle denunce contro il giornalista camerunense continuò ad aumentare, e le testimonianze si fecero più scabrose: a una ragazza che gli aveva chiesto di indossare il profilattico prima di un rapporto sessuale aveva risposto che si trattava di una richiesta razzista, che implicava che tutti i neri fossero automaticamente portatori di Hiv. Ad altre aveva raccontato che il suo sperma aveva poteri magici e non poteva essere sprecato.
Nel 2007 venne finalmente arrestato con l’accusa di aver deliberatamente infettato con l’Hiv, che gli era stato diagnosticato ben otto anni prima, le proprie partner sessuali. A conti fatti, Simon Mol fece sesso non protetto con oltre 300 ragazze polacche, infettandone più di 40 con la sindrome dell’immunodeficienza acquisita. Molte tra queste erano attiviste antifasciste e antirazziste, alcune contrassero il virus da Simon durante la sua visita a Gdansk nel 2006, dove organizzava il festival antirazzista “Musica contro l’intolleranza e la violenza”. Parecchie vittime di Mol erano assidue frequentatrici del “Salone di Varsavia”, un circolo artistico e liberale molto conosciuto. Nei suoi scritti, per i quali venne anche premiato, Mol descrisse queste donne come “topi bianchi”, come cavie: “Donne sensibili e adoranti che credevano di fare il proprio giusto dovere attraverso il politicamente corretto e cioè soprattutto aiutando i poveri rifugiati”. Simon Mol morì in conseguenza della malattia, il 10 ottobre 2008. Di lui ci restano questa storia quasi sconosciuta, perché troppo scomoda per essere raccontata secondo i canoni del pensiero unico, una scia di donne contagiate con un virus letale, e alcune poesie di dubbia valenza artistica:
“Vita, morte, vita.
Luce, Oscurità, Luce, Oscurità;
Luce, vita?
Niente può fermare la natura.
Neanche la natura”.
Alice Battaglia
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