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Siria, distrutto il mausoleo del generale Zahreddine

by Sergio Filacchioni
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Zahreddine

Roma, 2 mag – Le immagini che circolano in queste ore parlano chiaro: la tomba del generale Issam Zahreddine, figura cardine della resistenza siriana contro l’Isis, è stata brutalmente distrutta. Il suo mausoleo, la casa natale a Tarba, il monumento commemorativo: tutto è stato spazzato via da gruppi armati che agiscono nel deserto siriano, apparentemente scollegati ma in realtà parte di una strategia più ampia, diretta a erodere ogni elemento simbolico dell’unità nazionale.

La distruzione del mausoleo di Zahreddine

Il vento che ha raso al suolo la tomba del generale Issam Zahreddine non è solo un uragano di vendetta settaria o vandalismo armato. È il frutto amaro di una strategia più vasta, di un disegno che ha nell’instabilità permanente il proprio obiettivo. La Siria continua a essere sventrata da un’intesa informale ma efficacissima: quella tra Turchia, Stati Uniti e Israele. Un’alleanza di fatto, non ufficiale ma operativa, che ha trasformato il Paese in un laboratorio di balcanizzazione su misura per interessi geopolitici esterni. Israele, con il suo controllo delle alture del Golan e i continui raid su Damasco. La Turchia, che occupa porzioni intere del nord del Paese. Gli Stati Uniti, che controllano le aree petrolifere e mantengono basi militari “di consiglio” nelle zone curde dell’Est. Tre potenze, tre agende distinte, ma un obiettivo comune: impedire alla Siria di rialzarsi. Ecco perché colpire la tomba di Zahreddine non è solo un atto vandalico. È un messaggio. È la volontà di cancellare un simbolo scomodo: quello della resistenza, dell’eroismo patriottico, della Siria multietnica e unita. E ciò che rende il tutto ancora più sinistro è l’inazione – o la complicità – della nuova leadership siriana trapiantata dal Califatto al Palazzo per gestire la spartizione mentre fuori le bande e le milizie beduine – spesso definiti ancora oggi “ribelli moderati” – attuano il saccheggio sistematico del territorio e violano le tombe dei martiri.

Il generale delle Termopili siriane

«Nessuno obbedì all’ordine d’inginocchiarsi,
Qualcuno tentò un folle e disperato assalto, altri rimasero rigidi ed eretti…»
Walt Whitman, “Song of Myself”, Canto 34

Ma chi era Issam Zahreddine? Per capire la portata del crimine commesso contro la sua memoria, bisogna risalire alla sua figura. Druso, nato nel 1961 a Tarba, nel sud della Siria, iniziò la sua carriera militare nel Partito Baath e passò poi alle forze speciali paracadutiste. Salì i ranghi rapidamente, combattendo in prima linea in tutti i teatri più caldi della guerra civile: da Douma a Homs, da Baba Amr fino ad Aleppo. Ma è a Deir Ez-Zor che Zahreddine entra nella leggenda. Per quattro anni, la cittadina sulle rive dell’Eufrate resiste all’assedio dell’Isis. Isolata, accerchiata, bombardata, la roccaforte lealista agli occhi di tutti i serissimi “analisti” nostrani, sembrava destinata a cadere. E invece, come Leonida alle Termopili, Zahreddine tenne. Assalto dopo assalto, i suoi uomini della 104ª brigata della Guardia Repubblicana non cedettero. Mentre gli Usa colpivano “per errore” le postazioni siriane al posto di quelle dell’Isis, il generale mandava video dai terrapieni: «Veniteci a prendere!», gridava ai nemici. Si allenava trascinando i cingoli di un carro armato. Si faceva vedere in prima linea, col falco sul braccio. Diceva ai suoi: «Chi teme le vette delle montagne vivrà sempre nelle pozze di fango». Quando venne ferito a una gamba, continuò a combattere. E quando l’Isis fu infine respinto, furono le mine a fermarlo: il 18 ottobre 2017 un ordigno esplode sulla strada di Hawija-Sakr. Troppe le coincidenze, troppi i nemici. Ma nessuno è mai riuscito a piegarlo in vita. Zahreddine è stato un comandante, un eroe, un simbolo. Per la comunità drusa, era una guida. Per i lealisti siriani, una leggenda. Per gli strateghi del caos, un problema. È per questo che oggi la sua memoria viene violentata: perché rappresentava una visione di Siria che rifiutava tanto il settarismo quanto la frammentazione geopolitica. Una Siria araba, laica, forte.

Una promessa, un testimone

Durante un viaggio nel sud della Siria, nel maggio del 2023, chi scrive ha avuto l’onore di visitare il mausoleo del generale Issam Zahreddine, nel suo villaggio natale di Tarba. Un ricordo che oggi, alla luce delle nuove circostanze, si trasfigura in qualcosa di più: i cavalli selvaggi scolpiti sul frontone del palazzetto come un arcaico simbolo di libertà, il silenzio carico di significato e il volto fiero del “Leone di Deir Ez-Zor” disegnato nella fisiognomica del suo clan venuto a renderci gli onori di casa. Lui era lì, sotto una lastra di marmo, ma era anche tutti gli altri intorno: gli occhi affilati, la composta dignità del coraggio, la consapevolezza del ruolo di combattenti sempre pronti a tornare in azione. Siamo arrivati con una delegazione di CasaPound, e ci siamo raccolti davanti alla sua tomba con rispetto e consapevolezza. Ma evidentemente, per qualche strano scherzo del tempo e dello spazio, era più di una visita formale: era la raccolta di una testimonianza. “Nel solco del suo esempio e di quello dei migliaia di martiri caduti nella difesa della propria terra – scrisse di quel giorno CPI – continueremo a sostenere, con rinnovato vigore, la Siria fino alla Vittoria finale”. Sapere oggi che quel mausoleo è stato distrutto da bande senza volto, nel silenzio complice dei potenti, rende quel momento ancora più sacro. Perché ciò che è stato spazzato via dalla terra, resta scolpito nella memoria dei giusti. “Nessuno è scampato per raccontarci la caduta di Alamo“, scrisse in versi carichi di potenza Walt Whitman nella famosissima Song of Myself. Gli eroi devono cadere per poter entrare nella leggenda: le Termopili e gli spartani, El Alamein e la Folgore, Pozzuolo del Friuli e la 2ª Brigata di cavalleria. E oggi, mentre le ruspe dell’oblio cercano di cancellarne il ricordo, resta il compito di chi ha visto, di chi ha ascoltato, di chi ha promesso. Da Tarba siamo tornati con qualcosa da raccontare.

Sergio Filacchioni

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