Roma, 20 giu – O fortuna imperatrix mundi. Così eran designate la prima e l’ultima delle sezioni, scritte e musicate tra il 1935 e il 1936 da Carl Orff, dei suoi celebri (e bellissimi) Carmina Burana, quale parte del poderoso atto di rinnovamento delle arti musicali, sostenuto dal nazionalsocialismo tra le due guerre. L’idea che suggeriscono i primi due movimenti cantati – O Fortuna e Fortune plango vulnera, entrambi tratti da un testo popolare sorto nel milieu goliardico-universitario di epoca medioevale – è quella di una forza impersonale, che guida con crudele casualità le umane vicende. Contraddittoria ed evanescente, altalenante e ambivalente, la fortuna, esattamente come la luna ascende o discende il cielo, governa capricciosamente i destini dell’uomo e del mondo intero; potenza su cui, insomma, non si può fare di conto, dovendovisi però continuamente confrontare. Riecheggia qui – significativo nell’evo medio, è il recepimento in ambito non clericale – l’idea della Τύχη (Tyche) tardo-ellenistica: divinità che regna sugli uomini e persino sugli Dèi, condizionandone le azioni. Ma in modo ambiguo, come la sua stessa iconografia suggerisce. Spesso raffigurata come bendata e dunque cieca, reca nella mano sinistra una cornucopia, simbolo di ricchezza e fertilità; nell’altra, una sorta di timone (la si vuole, in Esiodo, ninfa nata dal mare) ad indicare il suo potere sull’universo. Epperò, una ruota, su cui Tyche appare assisa o si sorregge con i piedi, (ovvero, ancora, si trova al suo fianco, mentr’essa è eretta) che può girare in ogni senso mutando improvvisamente direzione, sembra piuttosto ammonirci sull’incertezza e sulla volubilità della fortuna. Certo, è un periodo tardo, già in parte corroso dall’evemerismo e dalle correnti di pensiero filosofiche più lontane dalla tradizione sapienziale, pieno di dubbi e angosce che seguono allo sfaldamento dell’originario spirito ario-indoeuropeo ellenico, al crollo della potenza militare greca e al vuoto lasciato dal progressivo abbandono del culto tradizionale degli Dèi. Ma è interessante notare, ad esempio, come la stessa storiografia greca, imputi alla maligna Tyche e non all’ἀρετή nemica (ossia, al valore e alla virtù) la conquista dell’Ellade da parte dei romani, cui, in sostanza, non viene riconosciuto alcun merito.
Tutto ciò non fu a Roma, se non marginalmente e in epoca già tardo-imperiale, proprio per effetto della penetrazione della cultura e filosofia greche. Ché del resto l’attitudine naturalmente virile dell’uomo romano di fronte agli eventi e il legame con il mondo del sovrasensibile, percepito e onorato come amico per le sue sorti, al pari di quelle della compagine dei cives tutti, non avrebbe potuto annettersi un tale atteggiamento. Così, quando Gaio Giulio Cesare sbarca in Africa per attaccare le forze pompeiane, inciampa sulla spiaggia: ma, come ci riferisce Svetonio, invece di piegarsi con rassegnazione alla malasorte, con prontezza e forza d’anima, egli abbraccia la sabbia ed esclama “ti tengo Africa!”, mutando un possibile avvertimento negativo, in segno fausto. Per effetto di quell’atto, la vittoria di Tapso appare più vicina. E allorquando, viceversa, i romani subivano il disonore della sconfitta, era loro costume, ricercare piuttosto la responsabilità tra le proprie schiere, più sovente individuandola in un’empietà individuale (o comunitaria): cioè, in una trasgressione umana alle norme che regolano il rapporto con il divino. La riflessione dello storico Livio dopo la tragica sconfitta del lago Trasimeno (217 a.C.), significativamente indica nel console Gaio Flaminio il responsabile principale: per la sua avventatezza nell’attaccare senza aver prima atteso rinforzi ed esplorato il terreno e le posizioni nemiche, ma ancor più, nel non aver osservato gli auspici contrari che consigliavano di non ingaggiare battaglia in quella giornata.
Eppure i romani conobbero numerose variates Fortunae. C’è Fortuna Barbata che accompagna e protegge l’adolescente verso l’assunzione della toga virile, quando cominciano a spuntare i primi segni della barba sulla guancia. Più avanti con gli anni, in suo favore interviene Fortuna Virilis, onorata dalla moglie perché aiuti il proprio marito e probabilmente “guardiana” dello spirito maschile: successivamente, in epoca tardo-repubblicana, le donne di più umile condizione, ogni primo giorno d’aprile, useranno bagnarsi nelle stesse acque pubbliche in cui, poco prima, avevano immerso le parti più intime, i viri, invocando la loro custodia. E come questa esiste per gli uomini, così essa, benigna, si pone accanto alle donne. Troviamo perciò Fortuna Virgo (o Virginalis) celebrata l’11 giugno, stesso giorno in cui veniva onorata Mater Matuta e della dedica del tempio di quest’ultima, nel Foro Boario: proprio dove, secondo il resoconto tradizionale, Servio Tullio aveva fondato due templi nell’area sacra. Uno dedicato a Fortuna (genericamente), e l’altro a Mater Matuta, per l’appunto. Il che induce a pensare che Fortuna Virgo fosse un divinità protettrice delle novelle spose – che avevano l’abitudine di deporre gli abiti usati per lo sposalizio ai piedi della sua immagine – introdotta in epoca medio-repubblicana, sull’originario culto di Fortuna, la quale avrebbe invece avuto funzione specifica di tutela della sovranità di Servio, passo per passo, accompagnandone l’ascesa da umile condizione. V’è, poi, la Fortuna Muliebris delle donne sposate, il cui santuario, che si trovava lungo la Via Latina al quarto miglio da Roma, fu fondato, in base al racconto consegnatoci dall’annalistica, dalla madre e dalla moglie del famoso eroe Coriolano, a seguito del consiglio ricevuto dalla voce della divinità stessa, udita improvvisamente. Secondo un lemma di Festo, il tempio sarebbe stato accessibile alle sole donne univiriae: cioè, che non fossero state sposate due volte; il che escluderebbe le sole vedove, secondo l’arcaico significato, proprio perché la Fortuna Muliebris con loro, non si era mostrata propizia. L’insieme dei dati e notizie permette di comprendere quale fosse la reale funzione della Fortuna, o meglio, delle tante Fortunae romane che abbiamo individuato: divinità degli indigitamenta – cioè, numina i cui nomi venivano raccolti nei libri pontificali, con la spiegazione del loro significato e specifica attività – che fungevano da patrone delle diverse fasce di età di uomini e donne e presiedevano, come sentinelle benevole, ai delicati riti di passaggio legati specialmente alla pubertà e all’accesso degli adolescenti romani al mondo degli adulti. L’assunzione della toga virile, lo sposalizio, la potenza virile nel concepimento, la fertilità: tutti momenti di eccezionale importanza nell’arcaica società romana. Fortuna, termine che deriverebbe dal verbo latino “ferre” (cioè, “portare, condurre”), reca seco, la benigna protezione divina in ciascuno di questi momenti.
E questo complesso quadro, sembra comprendere anche la sorte del guerriero: o meglio, ancora una volta, Fortuna. Vi son attimi in cui, sul campo di battaglia, tutto sembra perduto; eppure, è proprio in quegli istanti, che il condottiero romano resta saldo, senza abbandonarsi né allo sconforto, né alla cieca fatalità. Anzi, molto spesso decideva di rinsaldare la forza della benevolenza e del favore degli Déi (la pax veniaque deum), attraverso un voto (il votum: che era un vero e proprio contratto con il numen indicato, subordinato all’avveramento della condizione sospensiva, costituita dalla vittoria) che prevedeva l’erezione di un tempio, pagato con il bottino di guerra (manubiae) che a lui spettava, e la sua dedica alla divinità che era stata chiamata a schierarsi accanto alle legioni. Così nel 101 a.C. il pro-magistrato Quinto Lutazio Catulo, reduce dalla splendida vittoria conseguita ai Campi Raudii (Vercelli) sui germanici Cimbri, assai più numerosi, rese omaggio alla buona ventura, erigendo il tempio della Fortuna Huiusce Diei (la fortuna di questo giorno). Lo si può ammirare ancora adesso, presso l’area sacra di Largo Argentina, facilmente distinguibile per la pianta circolare. L’iniziativa di Catulo, non pare casuale, né isolata. Stando ad una notizia di Plinio, già qualche lustro prima, Lucio Emilio Paolo (presso il cui comando proprio Catulo prenderà servizio ancora assai giovane, in Iberia) aveva dedicato un piccolo tempio sul Palatino alla Fortuna Huiusce Diei, a seguito della straordinaria vittoria di Pidna (168 a.C.) che sancì di fatto la conquista definitiva dell’Ellade. Al termine di quella memorabile giornata, narrano le fonti, dopo solo un’ora di feroce scontro, giacevano morti oltre 20.000 macedoni; altri 11.000 erano stati fatti prigionieri. Dei romani, ne eran caduti poco più di cento. L’esercito macedone si era liquefatto, la Grecia capta. Colpa di Tyche beffarda? No. Settimana densa di avvenimenti questa: tra due giorni, il 22 giugno, ricorrerà l’anniversario di Pidna. Il 24 giugno cadrà il giorno del solstizio romano (che non coincide con quello astronomico del 21 giugno). Cosa veniva celebrato nell’antico solstizio, dai nostri avi? Fors Fortuna: la fortuna che ci è data dall’occasione, dal momento (e di cui, forse, ci sarà occasione di parlare ancora, specie con riferimento al complesso simbolismo solstiziale). Dunque: ricordiamoci chi siamo e da dove proveniamo, sempre. E per tutti coloro che festeggeranno in questa settimana, quale che sia la data prescelta, valga l’antico augurio: quod bonum, felix, faustum, fortunatumque sit!
Stefano Bianchi
1 commento
Casualità, ho riletto il passo sulla festa di Fors Fortuna di “Le feste di Roma antica” proprio due giorni fa.