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Giro d’Italia, storia di un mito da Pavolini a Pantani

by Mattia Pase
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Giro d'ItaliaRoma, 11 mag – Quando nel 1909 Luigi Ganna vinse la prima edizione, in Europa c’erano – oltre alla Svizzera – due sole repubbliche (Portogallo e Francia), quattro imperi (Germania Austria-Ungheria, Russia e Impero Ottomano), e una dozzina di regni e principati. I confini d’Italia si fermavano ben prima delle agognate Trento e Trieste.

Cinque anni dopo, la Prima Guerra Mondiale sconvolse irreversibilmente la cartina del Vecchio Continente, e nel 1919 il Giro d’Italia poteva celebrare la Redenzione di Trentino e Venezia Giulia con i 335 chilometri della seconda tappa, partita da Trento e arrivata a Trieste, vinta dal primo campionissimo del ciclismo mondiale, Costante Girardengo.

Da allora, il Giro non ha mai smesso di fare parte della cultura popolare italiana, appassionando milioni di sportivi e raggiungendo apici di popolarità che in alcuni periodi l’hanno portato ad insidiare lo storico predominio del calcio. E c’è stato anche chi sulla corsa rosa ha fatto persino letteratura: è il caso di Alessandro Pavolini, futuro fondatore delle Brigate Nere, che nel 1928 ottenne un certo successo con il romanzo Giro d’Italia.

L’inestinguibile rivalità fra Coppi e Bartali, l’epopea di Merckx, che condannò Felice Gimondi al ruolo di eterno secondo, e più recentemente le vicende di Marco Pantani, hanno raggiunto spesso la prima pagina della Gazzetta dello Sport, indiscutibile termometro delle passioni sportive degli Italiani.

Nemmeno le polemiche sul doping, che sembra sempre sul punto di travolgere il ciclismo mondiale, ma che mai riesce a dare il colpo di grazia a uno sport in cui la fatica dei protagonisti ha pochi eguali, hanno tolto fascino alla kermesse rosa, che attira quotidianamente migliaia di tifosi e semplici curiosi lungo le strade che portano il gruppo verso il traguardo finale.

In alcune tappe di montagna, che rappresentano l’anima più vera del Giro, il numero degli spettatori cresce vorticosamente, e se ne stimano svariate decine di migliaia, anche se allo spettatore sono concessi solo pochi secondi di spettacolo dopo ore di attesa. Il tempo che i corridori arrivino alla curva successiva, e spariscano dalla sua vista.

E’ con queste premesse che sabato 9 maggio è partita la novantottesima edizione del Giro, che vede fra i favoriti, in assenza di Quintana, vincitore del 2014, Alberto Contador, Rigoberto Uran e il sardo Fabio Aru, protagonista lo scorso anno di un sorprendente e spettacolare terzo posto.

Tutti e tre hanno nella salita il terreno di caccia preferito, e di salite ce ne saranno in abbondanza, nelle prossime tre settimane, con quattro tappe di alta montagna negli ultimi otto giorni di corsa.

Nel frattempo, l’anima più turistica e popolare del Belpaese verrà esportata in tutto il mondo dalle telecamere della RAI, e solo il Tour de France può vantare una vetrina più seguita a livello planetario, tanto che le località designate quali arrivi di tappa stimano un indotto nell’ordine dei milioni di Euro derivante dal semplice passaggio della Carovana.

Lo scorso anno, per dare un’idea della forza economica rappresentata dal Giro d’Italia, sono state centomila le presenze registrate a Trieste, traguardo finale, con un giro d’affari di almeno tre milioni di Euro, nonostante la tappa non avesse nulla da dire sotto il profilo agonistico, eccezion fatta per la volata finale, vinta (la nemesi storica non risparmia neanche il ciclismo) da un corridore sloveno.

Dopo le parentesi di Trieste e Brescia – città in cui si è concluso il Giro 2013 – quest’anno la corsa si concluderà nuovamente, come da tradizione assodata, a Milano.

Non solo sport, quindi, e il volume d’affari sollevato dalle ruote dei corridori spiega l’interesse a tenere vivo lo spettacolo del ciclismo, nonostante le già citate vicende di doping che, a partire dagli anni Novanta, hanno pesantemente condizionato svolgimento e risultati delle gare.

Tuttavia, chiunque abbia dato qualche colpo di pedale, magari in salita, sa quanto grande sia lo sforzo di pedalare per migliaia di chilometri (3.482 quest’anno) in venti giorni, e si ferma ad ammirare lo sforzo dei ciclisti, e le imprese dei migliori, sperando che il beniamino del momento sia uno di quelli che rifiutano scorciatoie chimiche per raggiungere il traguardo.

Non rimane dunque che augurarsi un’edizione “pulita”, possibilmente ricca di colpi di scena, capace di far parlare di sé più per gli scatti che per le polemiche.

Con l’ovvio auspicio che sia un italiano a presentarsi in rosa sul rettilineo di Corso Sempione a Milano, nel pomeriggio di domenica 31 maggio.

Mattia Pase

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Anonimo 11 Maggio 2015 - 1:08

Da ciclista di famiglia di ciclisti, posso aggiungere che per il rapporto che ha con la fatica, la natura, il dramma, l’eroismo di ogni tempo; questo sport è unico, per le sue ritualità quasi una religione.
Poi ricordiamoci che è l’unico sport che ha fatto in questi anni una vera lotta al doping, l’unico sport che pur di liberarsi da quel veleno ha rischiato e rischia l’estinzione.
Questo dovrebbe essere un titolo di merito, mentre in un mondo di ipocriti rappresenta una vergogna.

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