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Tradizione e metapolitica della controdecadenza in Julius Evola

by La Redazione
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Roma, 12 ago –  La nozione di tradizione, in alcuni ambienti vicini al pensiero di Julius Evola, è stata interpretata come rivoluzione metapolitica (con giustificato rimando alla esperienza germanica della “rivoluzione conservatrice”i, oltre che mediante una lettura “metapolitica” dell’opera di R. Guénon): la prospettiva “rivoluzionaria” può essere intesa, in tal caso, anche quale “mistica” lato sensu, ossia come la “immanentizzazione” di questa; in un certo senso, essa è la risultante della integrazione precipuamente occidentale tra politica e tradizione, calata nel contesto del mondo moderno. In un mondo “rovesciato”, la tradizione diviene quindi rivoluzione (non semplicemente “reazione” o “controrivoluzione”).

Metapolitica e tradizione in Evola

La metapolitica, in questo senso, ha costituito il tramite tra le elaborazioni meramente politiche ed il cd. ”orientamento tradizionale”; e ne è stata, pure, una “sintesi” qualificante. Da questo punto di vista, il “paradosso evoliano” è consistito proprio nell’aver Evola costituito un autore tendenzialmente “impolitico” (o forse, più precisamente, metapolitico), e tuttavia suscettibile di interpretazioni (secondo noi non destituite di fondamento) che, tra l’altro, traslavano la metapolitica evoliana sul piano dell’azione politica (ossia della “grande politica”): coll’assunzione di una postura di “realismo eroico” che si dava quale fine ultimo quello di operare sulla realtà, scavalcando l’apoliticità dei “tradizionalisti” (guénoniani e schuoniani) e innervando la stessa “impoliticità” evoliana.

Da questo punto di vista, F. Freda (1941-), insieme a C. Mutti (1946-), ha rappresentato il più significativo epigono “politico” di Evola. Il mezzo per “cavalcare la tigre” è stato inteso dall’editore padovano il superamento del nichilismoii: in tale prospettiva, F. Nietzsche è stato assunto quale medium destruens, anche se non pienamente concluso (dal “nichilismo passivo” è necessario passare a quello “attivo”, attraversando il primo); Platone quale riferimento construens (nozione del “vero Stato”); e lo stesso Evola come trait d’union “attuale” tra i due grandi filosofi dell’Occidente greco-germanico, pure irrisolto tra “individuo assoluto” e “Tradizione”.

Il “distacco”, categoria eminentemente “mistica”, qui si deve intendere come il mezzo sovrano per agire sulla realtà (magicamente o “politicamente”, tramite l’”io assoluto” e l’”immaginazione creatrice” ad esso connessaiv, ovvero attraverso l’azione): se alla incipiente desacralizzazione della religione corrisponde, quasi per compensazione, la sacralizzazione della politica, quest’ultima diviene non solo una religione, ma una nuova sintesi metapolitica ed una autentica ascesi o “mistica dell’azione” (affine a quella del “soldato politico”, o “miliziano”, nei termini di Freda, che la riprende da E. Von Salomon [1902-1972]). Di tale “ascesi”, operante nella storia e fondata sulla volontà, l’”uomo nuovo”vi è il “sacerdote” (il “mistico” fascistavii, in qualche modo analogo alla SS germanica, che peraltro teneva in somma considerazione i samurai giapponesiviii), una sorta di “monaco guerriero” adattato ai tempi: “insomma, il razzismo era la chiave che permetteva di realizzare finalmente il totalitarismo perfetto: un ‘uomo nuovo’ rinnovato nel corpo, ma soprattutto nello spirito […]”.

All’interno di un processo che portò alla “svolta antisemita” del 1938, la “nazionalizzazione delle masse” (G. Mosse) fu seguita quindi dalla “razzizzazione della nazione” (l’antisemitismo, unitamente alla nozione ed alla prassi dell’”uomo nuovo”, rafforzava il sistema totalitariox). Secondo Evola, la mistica fascista, fuori dalla coppia complementare sentimento-cerebralitàxi, ha un significato specificamente razzialexii, e il suo fine è l’ordine superindividuale e supernaturale, la “’realtà libera dai limiti di tempo e spazio’, che, all’inizio della sua Dottrina del Fascismo Mussolini stesso riconosce e indica come imprescindibile condizione per ogni ordinamento della volontà e per ogni dominio”xiii. Essa, pur interferendo con la religione (ascesi cattolica), ne è chiaramente distinta: “esistono delle combinazioni interiori in cui […] il Mehr-Leben, vale a dire una estrema intensità di vita, si capovolge e quasi trasfigura in un Mehr-als-Leben, in ‘più che vivere’, ‘più che vita’ […] Si tratta di apici, capaci di giustificare tutta una esistenza umana e che, per così dire, rendono partecipi di un’altra natura”xv. Infine, la mistica, favorita dall’attivazione di un clima di tensione spirituale ed eroica, è la sostanza di una “rivoluzione permanente”, all’interno della quale la “forza primordiale formatrice” si “risveglia” e fonda il vero Stato, concepito come entelechía, “mito” (idea-forza) e “forma più alta e potente di personalità”, per cui, come ha affermato Mussolini, è lo Stato, “forza spirituale”, “autorità che dà legge e valore di vita spirituale alle volontà individuali”, a creare la nazione”xvi.

In tal senso, è ovvio che le stesse esperienze fasciste non vadano tanto considerate come dottrine, quanto quale Weltanschauung (questa ne è l’interpretazione presso autori quali Evolaxvii –seppure con critiche–, i letterati francesi collaborazionisti, etc.), che inglobano in sé uno “stato d’animo”, uno “stile” e quindi una sorta di “estetica della politica”. Lo stesso Evola, dopo un impegno “politico”, passò ad una elaborazione propriamente “metapolitica”. Ciò non escluse, oltre alle problematiche teoretiche e pratiche che l’approccio di Freda poneva, i differenti orientamenti di quest’ultimo e di Muttixx (giornalisticamente maltrattati quali “nazimaoisti”xxi) ed i contrasti tra gli stessi Freda e Evola.

Nel caso di Freda, con la sua Disintegrazione del sistema si volle proporre un contenuto consapevolmente e radicalmente nazionalpopolare ai sommovimenti del ’68-’69: ove lo “Stato popolare” e l’alleanza con le sinistre extraparlamentari (principalmente in funzione anticapitalistica e antisionista, oltre che “antieuropea”, ed avversa a quell’anticomunismo deteriore tanto à la page a destra) costituirono unicamente mezzi e fini tattici e provvisori, non strategici, né tantomeno “dottrinali” (anche se integrati con la nozione e la funzione moderna di “popolo”, e con un certo apprezzamento del totalitarismo cinese). Già allora, dall’analisi del folgorante testo in questione, si poteva ben comprendere come si trattasse di una prospettiva eminentemente “ultrapolitica”, fondata su di una interpretazione, pure “problematica”, di un passo di Evola sulla apoliteíaxxiv: che intendeva attualizzare ed esplicitare ciò che nel filosofo era implicito, traendo spunti pragmatici da quanto si considerava lo “spirito” del dettato evoliano, che, dalla assunzione di uno “stile interno” eroico mutuava la necessità di una “guerra santa” al “sistema borghese” (sul piano, quindi, politico: ma si trattava di una prospettiva, almeno teoreticamente, del tutto estranea ed esterna all’alternativa classica destra-sinistra). Il “cortocircuito” tra tradizione e modernità ha dato pertanto luogo a una sorta di “retrofuturismo romantico”, che ha idealizzato alcuni dati storicamente complessi in “archetipi” fondanti la prassi “politica”, sulla base di una mitostorica, pura “emozione delle origini” (talora ingenerando, però, “scentrate” esplosioni di violenza e, individualmente, di rabbia malcelata).

La religione come ordine sociale

In altro ambito, dal punto di vista della storia delle religioni (sul piano di un’”ermeneutica creatrice”xxv debitrice di M. Eliade), ci si è concentrati sulla ricerca del “senso” dell’esperienza religiosa (homo religiosus) come “antidoto” alla modernità. In questo caso, la comparazione è stata anche intesa come via per la ricostruzione delle differenti tradizioni religiose, forme storiche della “sapienza”xxvi: qui, il rapporto tra tradizione e storia (e “cultura” come “degradazione” della “sapienza”) è palesemente tematizzato. La storia sarebbe l’esito di una rottura ontologica “originaria”, costituita dal processo di ingravescente solidificazionexxvii che muove, sul piano “individuale”, dall’individuazione dell’”io” (in termini cristiani, la “persona”; si pensi anche a certe tesi junghiane), con i portati del “terrore della storia” e dell’”angoscia esistenziale” (dovuta alla contemplazione dell’abisso che induce la “caduta”, oltre che alla heideggeriana “gettatezza” [Geworfenheit]) e della libertà correlata (la storia come dominio della volontà). Ciò che sul piano materiale è individuato come “corpo”, sul piano “mentale” implica il formarsi delle categorie di spazio e tempo, e quindi la percezione di sé come “individualità”: la “esperienza della finitudine”, dunque, che a sua volta determina la constatazione della propria mortalità (altro motivo di angoscia, sublimato, nelle “civiltà tradizionali”, dallo stretto e organico aggancio al trascendente, che ordina la società e le conferisce un significato maggiore).

Marco Toti

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