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Ucraina 2024: “Gente che combatte, gente che ama”, appunti di missione dei volontari europei di Sol.Id.

by Sergio Filacchioni
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Roma, 25 ago – “Non v’è nulla di nuovo: tutto si ripete, e subito passa”. I Ricordi di Marco Aurelio riemergono nella mente come un torrente carsico. “In tutte le epoche”, dice l’imperatore filosofo, “troverai le stesse cose che capitano anche oggi: gente che si sposa, alleva figli, si ammala, muore, combatte, celebra feste, commercia, lavora la terra, adula, fa l’arrogante, sospetta, tende insidie, si augura la morte altrui, si lamenta del presente, ama, accumula ricchezze, aspira al consolato o al regno. Eppure non è più nulla in alcun luogo tutta la loro vita”. L’umana miseria può misurarsi in queste poche parole, così come la grandezza: gente che combatte, gente che ama. Non è forse questo il miglior antidoto alla morte? Provare a giocarsela alla pari, come Antonius Block ne Il Settimo Sigillo di Bergman. Non vorreste anche voi aver tentato, almeno una volta, una mossa?

Tutto ciò che era, che è, e che sarà, esiste simultaneamente. E questa verità si rende visibile agli occhi attraversando le pianure ucraine: viene da chiedersi se qualcuno le abbia mai esplorate veramente fino in fondo, in ogni singolo anfratto. Per quanto ne sappiamo là in mezzo potrebbe nascondersi ancora una civiltà ignota, nascosta tra boschetti e girasoli. Oppure nulla. Eppure questo è lo stesso paesaggio da secoli. Probabilmente anche le strade sono le stesse, ripassate con una leggera tinta d’asfalto per assecondare il progresso. Siamo diretti ad Est: verso il punto più orientale che su questo continente possa essere raggiunto da due mezzi su ruote e una ciurma di volontari di Sol.Id. partiti da tutta Italia. Lì a Kharkiv – lo sappiamo bene – corre una linea di demarcazione che non lascia spazio a dubbi o perplessità. Ma una promessa è una promessa. Nemmeno la minaccia diretta di un attacco aereo può farci fare marcia indietro: qualcuno ci aspetta. Balaklija sembra uscita direttamente dalla mente di Sergio Leone: il paese, la piazza semi-vuota, qualcuno che osserva di sguincio i forestieri, quel leggero senso di abbandono, ruggine ed erbacce.

Dall’altre parte della piazza ci aspettano i parenti di un ragazzo che ha fatto la sua mossa. Qui molti giovani l’hanno fatta: e lì puoi trovare al cimitero, oppure in un centro di riabilitazione che cercano di conciliare i propri neuroni con il metallo di una protesi artificiale, oppure sorridenti alla guida di un furgone che distribuisce aiuti umanitari negli ospedali e nei villaggi colpiti dalla guerra. Qualcuno è ancora steso su un letto d’ospedale, con una parte di corpo mancante che ti guarda come un alieno venuto dallo spazio. Cercare di decifrare una mutilazione è come voler scoprire la domanda partendo dalla risposta. È intuitivo. Non serve chiedere nulla. Su questa scacchiera pianeggiante chiamata Ucraina sono molti quelli che stanno giocando contro la morte, anche se molti hanno già perso nel tentativo c’è anche chi continua la sua partita: piccoli pedoni contro la grande regina, silenziose torri che delineano una fortezza, cavalli pazzi che si lanciano in arditi assalti.

A Balaklija una madre ci racconta delle passioni del figlio: l’esercizio fisico soprattutto. Una passione che lo ha fatto ribattezzare “Fit” dai suoi commilitoni e lo ha portato lì dove nessuno avrebbe osato: in avanti. Lì dove il rischio è maggiore. Lì dove si è volontari tra i volontari. “Siamo la milizia a piedi, l’umile soldataglia, i fanti che vanno là dove c’è il nemico e lo combattono di persona”. Forse un giorno si potrà fare a meno di loro. “Forse un giorno qualche genio pazzo e miope, dalla fronte sporgente e dalla mente cibernetica, concepirà un’arma che potrà infilarsi in una trincea, stanare il nemico, costringendolo ad arrendersi a morire…”; ma la macchina per sostituirli, purtroppo o per fortuna, non è stata ancora costruita. Si va all’assalto a piedi come cinquemila anni fa. Ci vogliono le gambe, il cervello e il cuore. Il luogo di riposo di Fit sembra una spiaggia. La sabbia fa uno strano effetto dentro un cimitero: il legno che circonda le sepolture le fa sembrare tante piccole scialuppe arenate sulla riva dopo un lungo viaggio. Ognuna con la sua bandiera. Ognuna con la sua storia. Ognuna con il segreto desiderio di riprendere presto il mare, che però qui non si vede: al suo posto ci sono tanti alberi piantati a terra come mozziconi di sigaretta in un gigantesco posacenere. La famiglia di Fit ci porta con compostezza alla sua croce: deponiamo una piccola corona, ascoltiamo i loro racconti, doniamo loro il secondo quaderno solidale di Solidarité Identités. Ucraina, trincea d’Europa è un libro frutto della testimonianza di tanti volontari che dai primissimi mesi del conflitto si sono spinti lì dove nessuno ha voluto guardare. “Cronache di coraggio, fede e solidarietà dalla frontiera orientale” è il sottotitolo che sulla copertina accompagna una foto proprio di Fit, a cui il volume è stato dedicato: il figlio, il fratello, il fidanzato di questa piccola comunità che si è riunita per noi che veniamo da una terra lontana tremila chilometri. “Abbiamo voluto raccontare l’invasione in Ucraina raccogliendo testimonianze, analisi e fotografie di uno dei conflitti più sanguinosi e cruenti del dopoguerra ad oggi”. Una guerra che, sottolineano i curatori, si svolge alle “porte d’Europa e ci ha costretto a ripensare categorie e paradigmi della nostra esistenza”. Anche la famiglia, nonostante la commozione, ci fa sapere tramite la nostra amica e compagna di viaggio che ci fa da interprete, che capisce ciò che siamo venuti a fare, il senso di un impegno preso di fronte alla morte di così tanti giovani. Nonostante i figli persi. Nonostante il dolore. Qui si crede in questa parola, Europa, che ad occidente facciamo ancora fatica a nominare ma che già si affaccia come “possibilità” oltre il torpore post-storico a cui siamo stati condannati dal tribunale dei vincitori.

Questa missione ha attraversato l’Ucraina nelle sue ferite più profonde, spingendosi fino all’ultima grande città prima della Russia. La vita scorre e riprende lì dove è possibile, come un corso d’acqua che interrotto trova altre vie. Scopriamo che è possibile vivere anche sotto la minaccia di un bombardamento imminente annunciato dalle sirene: potrebbe non essere nulla o potrebbe essere diretto a te. Portare la solidarietà qui assume un significato reale e si declina nelle cliniche, negli ospedali, nei centri di raccolta che ogni giorno lavorano per la vita; ha la forma di un volume stampato in proprio che testimonia la nostra scelta di non lasciare la scena agli arroganti, ai sospettosi, a coloro che si augurano la morte altrui e che si lamentano del presente, magari comodamente seduti su un divano. Qui ritroviamo amici, fratelli, avventurieri di tutta Europa: uomini e donne che vagano, ma non si sono persi. Uomini e donne accomunati da un solo segno distintivo: “non sopportano che il Sole, al suo sorgere, parta senza di loro”, per dirla con le parole di Sylvain Tesson. Ogni missione ha i suoi obiettivi pratici: portare aiuti, materiale, sostegno economico proveniente dalle donazioni di tanti italiani ed europei. Poi ci sono gli obiettivi dello spirito: partire, allontanarsi dalla quotidianità, superare la linea d’ombra che ci separa dalla vita reale, ovvero quella che nasce quando si accetta l’orribile, il transitorio, la propria stessa fine che è la stessa di tutti gli altri. Possiamo solo decidere “con quanto coraggio arrivarci”. Missione fa rima con iniziazione. Nessuno torna mai uguale a come era prima. “Un barlume di speranza è nelle nostre braccia”. Così Omero, per bocca di Aiace, ci ricorda che la salvezza non arriverà da qualche esercito straniero e nemmeno da qualche messia proclamato ad est o ad ovest dai nostri connazionali troppo pigri per alzare lo sguardo. Solo dalle nostre stesse mani. Mani che “non versano lacrime”. Mani di Europei. Mani di volontari.

Sergio Filacchioni

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