Roma, 26 feb – Uscito da appena tre giorni, Doromizu è già diventato oggetto di culto ricercatissimo da tutti i fan di Sottofasciasemplice, curiosissimi di vedere come l’estro artistico del Mario Vattani musicista si possa essere manifestato in quella che è di fatto per lui – e per i fan stessi – una novità assoluta. Vattani ha accettato di incontrarci per rispondere ad alcune domande.
L’annuncio ha creato non poco entusiasmo: Mario Vattani che dopo cinque amatissimi e vendutissimi cd musicali fa uscire un romanzo. Perché questo cambio radicale?
Con Sottofasciasemplice ho sempre dedicato moltissima attenzione ai testi. Mentre per esempio quando suonavo punk rock, oppure oi, o in altri tipi di gruppi in cui ho suonato, si partiva sempre dalla musica, magari perché uno faceva un bel riff e poi ci metteva le parole, in SFS i pezzi sono nati prima come testi e solo dopo sono diventate canzoni, perché ci ho aggiunto la musica in un secondo momento. È un lavoro molto più pesante da fare. Ecco stavolta ho voluto sbarazzarmi del peso di dover mettere la musica sulle parole, ma perché? Perché il problema è che la musica ti limita, mentre le parole arrivano a tutti. Negli ultimi anni mi sono espresso più con la prosa che con la musica e ho visto che quando scrivi arrivi a più persone, perché scavalchi il problema dell’età, del tipo di musica che piace e che non piace, ed ho voluto raccontare una storia, ma in realtà questa storia io l’ho costruita come ho costruito gli album di SFS.
Infatti i fan di SottoFasciaSemplice amano i tuoi dischi per le musiche sperimentali e rivoluzionarie ma soprattutto per i tuoi testi che sono sempre ricchi di simboli ed esoterismo, basti pensare alle strofe di Perseo, Bandiera Nera o Tenaglia. Sulla tua pagina facebook hai definito il tuo romanzo un “viaggio iniziatico nel ventre di Tokyo”. Avremo quindi anche nel romanzo questa carica simbolica ed esoterica?
È tutto simbolico, io l’ho ambientata in Giappone, in un contesto decadente, buio, oscuro, misterioso. E questo l’ho fatto anche nei dischi, nei dischi sono sempre andato a trovare situazioni difficili, di disastro, di fine di tutto. Mi piace mettere i personaggi alle prese con queste situazioni perché è in queste situazioni che secondo me emerge la purezza, emerge la vitalità, la speranza. Più tu scendi, più vai nell’oscurità, più trovi la luce. È un cammino che ho voluto chiamare “viaggio iniziatico” perché il personaggio si trasforma, così come si trasformano anche i personaggi dei miei dischi: c’è sempre un protagonista che si trasforma e alla fine è diverso da come era all’inizio. Crociato è il più tipico di tutti, ma anche in Idrovolante, dove c’è questa specie di personaggio pilota che passa attraverso tutta una serie di avventure, scende nel punto più basso possibile e poi alla fine c’è sempre un momento di catarsi e di epifania. E anche Filo Spinato, con questa lotta dopo la quale ci si accorge che si era già lì, lì dove si voleva arrivare. Il libro e i dischi sono un tutt’uno, ok non si chiama SFS e si chiama Mario Vattani, ma tanto oramai sanno tutti che Vattani e SFS sono la stessa persona (ride). Però è un libro che si inserisce perfettamente nella libreria di chi ha conosciuto e apprezzato SFS. Invece di essere un’avventura emotiva o spirituale, staccata da un contesto preciso, questo qui è in un contesto Giapponese. Un album ambientato in Giappone e in cui il personaggio vive un’avventura.
Ecco, il Giappone. Molte volte gli occhi (miopi) occidentali definiscono il Giappone come una “terra dalle mille contraddizioni”, non capiscono come tradizionale e moderno possano convivere e spesso chi ci va rimane deluso dagli aspetti più “moderni”, come se fossero una negazione dello spirito tradizionale. Eppure tu che hai vissuto per anni in Giappone e che ne ami lo spirito più tradizionale hai ambientato il romanzo nella Tokyo più moderna, oscura, suburbana e metropolitana.
Molte volte la gente va in Giappone dopo aver praticato per anni in un contesto tradizionale giapponese, arti marziali, cerimonia del tè, e poi arriva per esempio a Tokyo, modernissima, e ci rimane male. Poi magari va a Kyoto, nei templi ed esclama “ah, ecco il vero Giappone”. Ma non è così. In Giappone l’architettura non è materiale, è nell’azione di chi fa, l’architettura è di chi sa eseguire. Se tu sai eseguire, in un contesto di Tokyo o in un contesto di Kyoto è la stessa cosa, la tradizione è nel tuo comportamento. Non è nell’oggetto, nella strada, nel palazzo. Il Giappone che io racconto non è tradizionale di per sé. Non siamo a Tokyo nelle case di legno con la gente seduta a bere il thè. È un Giappone sfasciato, moderno ma vecchio, che arranca tra gli anni ’60, ’70, ’80, ’90, ’00 i quali esistono tutti in contemporanea, il vecchio e il nuovo tutto insieme. È questo il vero Giappone, è tutto mescolato e così come hai una città tutta mescolata hai dei comportamenti tutti mescolati. Io ho scelto – e l’ho fatto apposta – di andare a cercare tutto quello che c’è di più difficile da concepire come tradizionale, e ho voluto mostrare che come nel buio c’è la luce, nella decadenza e nel buio dei comportamenti – non voglio dire nel buio della morale perché non c’è morale, nel mio libro non esiste la morale occidentale – in questo buio c’è la tradizione, c’è il comportamento di dare il meglio di sé, di comportarsi bene, di arrivare ed eseguire fino alla fine, di prendere un impegno e di mantenere la parola. Anche quando siamo in contesti assurdi, in cui pensi non possa valere la parola. E invece vale, fino in fondo. È un libro che racconta questo.
Più volte hai detto che il Giappone è libero dalla morale occidentale. Eppure gli occidentali considerano il Giappone molto restrittivo nelle sue regole, nella sua severità, molto più dell’occidente. Nella quarta di copertina c’è una frase del libro che riguarda il raggiungimento della libertà in un oriente estremo dove contano solo l’audacia e il dare il meglio di sé. C’entra qualcosa con l’ambientazione nel mondo del cinema a luci rosse?
In questa storia c’entra, come una metafora curiosa. Prendiamo il cosiddetto mosaico nei film a luci rosse giapponesi. Nel romanzo per esempio, c’è una scena in cui un regista spiega ad Alex come filmare le scene in una pellicola hard: poiché in Giappone è obbligatorio coprire con un mosaico di pixel le parti intime, non si può filmare come in occidente, dove si riprende tutto perché si vede tutto. Quindi ci si deve allontanare con la ripresa, altrimenti non si vede niente. E allora il campo si allarga, è più ampio. E qui arriva il paradosso. È vero che da noi si può vedere tutto perché non c’è nessun mosaico, quindi uno può pensare che noi siamo più liberi perché si può filmare tutto, si può vedere tutto. Ma non è vero, la nostra è una libertà formale. Il Giappone ti impone, proprio a causa della sua severità, delle sue regole, di fare cose più complicate, più strane, devi per forza inventare una storia, un film, devi per forza fare cinema, perché altrimenti di significativo non rimane nulla, rimane solo mosaico. Questo vale per tutte le cose. In un contesto severo devi per forza elaborare, andare oltre, inventare, mentre noi qui rimaniamo attaccati alla materia. Nel libro, anche quella dei film a luci rosse diventa una metafora, un modo strano di raccontare come la severità, la disciplina, ti liberano.
Con il libro sarà disponibile anche un cd che hai definito una vera e propria “colonna sonora” del romanzo. Cosa puoi dirci a proposito? In che senso sarà una “colonna sonora del romanzo”?
Ci sono delle scene nel libro in cui si guida sullo shuto (sistema di autostrade cittadino) o si sta nella metro. Ecco questa è la musica dei momenti in cui Alex sta per conto suo. Non è fatta tanto per accompagnare i momenti della trama più avvincenti. È un modo per proporre al lettore che conosce SFS, una musica che normalmente accompagnerebbe una storia se non fosse un libro. Sono pezzi strumentali, io ho voluto aggiungerci dei momenti in cui c’è una lettura, o in cui declamo o dico qualcosa. Per capirci, sono simili a canzoni come Riccardo III o Duomo di Metallo, lo stile è quello, “parole accompagnate dalla musica”, ma è una musica che dovrebbe mettere chi l’ascolta nello stato d’animo in cui è il protagonista in quei momenti. Magari se lo senti dopo aver letto il libro ripensi a quelle scene. Perché questo è un libro che crea nostalgia, quello che io voglio è che quando il lettore finisce il libro desideri tornarci, saperne di più. Di colpo sei portato via da quel mondo perché è finito il libro. Ma è un mondo in cui puoi rientrare, basta rileggerlo. Un po’ come il Signore degli Anelli, che finisce un po’ così, ma tu basta che lo rileggi e di nuovo sei in quel mondo. Un po’ come rivedersi un film o alcune scene. Questa musica io l’ho composta per questo, perché una volta che hai letto il libro, quella musica dovrebbe ricordarti con nostalgia quel mondo che hai lasciato alla fine del libro.
Cinque cd, un romanzo… dobbiamo aspettarci un film in futuro?
Magari! In realtà vorrei che il libro diventasse un film. O meglio, una serie tv. O meglio ancora (ride) prima un film e poi una serie tv. Vediamo…
Carlomanno Adinolfi