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Yukio Mishima – L’ultimo spirito eroico

by Sergio Filacchioni
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Mishima

Roma, 25 nov – Il settimo capitolo della collana “Gli imperdonabili” del Primato Nazionale è arrivato: “Yukio Mishima – L’ultimo spirito eroico“, scritto da Federico Goglio. Quale migliore occasione di presentarlo, se non nella “fatidica” data del 25 novembre: giorno in cui si rievoca la prima “devotio” dell’epoca contemporanea, quella di un giapponese divenuto samurai.

I due volti di Mishima

Come un Dio bifronte, la figura di Mishima raggiunge le nostre sponde con l’eco di un mondo lontanissimo dai tratti somatici confusi. Ma come spesso accade, avvicinandoci con lo sguardo l’immagine può farsi più nitida. Spiega Adriano Scianca nell’introduzione del volume: “Esiste il Mishima che piace in Occidente, lo scrittore dandy e decadente, la star culturale un po’ capricciosa, l’intellettuale sensuale, omosessuale e masochista, il frequentatore di ambienti torbidi e notturni. E poi esiste il Mishima che piace agli identitari, il patriota, il samurai, colui che decide di dare una forma a se stesso, che si allena, che si addestra, che scolpisce il suo fisico, che scopre lo stile esistenziale militare, che infine si dà la morte in un sacrificio per il Giappone eterno. In qualche modo esistono due Mishima: il secondo comincia quando scopriamo che ce n’è solo uno”. C’è un volto solare, quindi, e un volto oscuro, oltre le categorie di “bene” e “male”, quasi a voler rappresentare il complesso moderno del corpo e della mente che nell’azione eroica possono ritrovare la loro perduta unicità. “I due Mishima” sono quindi i due volti, o forse sarebbe meglio dire le due possibilità di ritrovarsi: “γνῶθι σαυτόν”, conosci te stesso, l’antica esortazione del tempio di Apollo a Delfi che dall’Egeo vuole farsi carne sulle sponde del Mar del Giappone. O forse è il contrario?

Tutto ha avuto inizio in Grecia

“La salita lungo la rupe svela costruzioni sacrali di uomini antichi che a quel precedente sguardo fugace, dal basso, parevano invece solo grosse pietre ammassate sui declivi montuosi, su pendii brulli puntellati di papaveri rossi: il tesoro, il tempio di Apollo e l’oracolo, il teatro, lo stadio… è il bianco di Grecia che qui, da sempre, nell’architettura e, soprattutto, nella scultura è stato scelto in armonia evidente con l’azzurro del cielo, il blu del mare, il rosso del sangue degli uomini”. In questo primo passaggio, altamente evocativo, scelto da Goglio per iniziare la sua marcia con Mishima si racchiude il senso di un’origine “elettiva”, un’identità “scelta”. Dopo il suo viaggio in Grecia e il confronto con la platea mediterranea di sole e sale il giovane scrittore sembra compiere quella trasmutazione che lo porterà sul sentiero d’oro degli eroi. Parlando del sole greco, dirà al suo ritorno «Ha una luce che supera ogni moderazione. È nudo incalcolabile, eccessivo. Amo profondamente questa luce». Mishima quindi si sceglie, si seleziona, si mette a nudo sotto il paesaggio onirico dell’Ellade bruciata dal sole: “Laudato sii, potere I del sogno ond’io m’incorono I imperialmente I sopra le mie sorti I e ascendo il trono I della mia speranza”, canta D’Annunzio nella Laus vitae. Sarà casuale quindi, o forse per niente, che il percorso di redenzione di un uomo e di un popolo dalla decadenza venga battezzato dalla bellezza classica, dove sangue ed amore, violenza ed armonia, vengono sublimate in una sostanza che “è più che vita”.

La via del samurai

Sembra una contraddizione: “L’uomo destinato a passare alla storia come ultimo samurai, come scudo e spada della cultura nazionale giapponese”, ha attinto la sua origine dal nostro paesaggio. Quella scintilla, quella stilla di sole che permette alla vita di rinascere. Una contraddizione che però si scioglie facilmente. Spiega sempre Goglio: “Mishima finisce per focalizzarsi sugli aspetti della cultura ellenica che la accomunano alla sensibilità giapponese ma, sempre e comunque, secondo una personale interpretazione. Il legame tra morte e bellezza è uno di questi. Nel saggio La bella morte del 1967, Mishima sostiene che l’ideale degli antichi greci di vivere e morire con bellezza è molto simile ai princìpi sostanziali del bushido – la via del guerriero, il codice di condotta dei samurai – aggiungendo però che nel Giappone contemporaneo dove conta esclusivamente fare denaro l’ideale della «bella morte» è purtroppo molto difficile da realizzare”. Non di meno, Yukio Mishima sa che anche l’Occidente ha voltato le spalle ai valori estetici della sua aurora, con l’avvento del cristianesimo e la demonizzazione del corpo, con l’inaugurazione di quella frattura tra pensiero ed azione che genererà i mostri della ragione.

Apollo come Buddha

Come un giovane “beat” asiatico anche Mishima è in cerca del suo Dio: “L’eterna giovinezza di Apollo è la mia luce, la fonte da cui scaturisce il mio lavoro. Se si pensa alle origini del Buddha del Gandhara, che conserva in sé le vestigia di Apollo, questa statua potrebbe essere definita il mio personale Buddha”. I due volti che ritornano a palesarsi e confondersi: l’Europa ha salvato Mishima o Mishima ha salvato l’Europa? Questa domanda è destinata a rimanere insondabile: i valori eroici che lo scrittore ha saputo incarnare sono stati tesi verso il risveglio nazionale del Giappone, senza dubbio. Come ben sappiamo però azioni così potenti sono destinate a far vibrare il diapason della civiltà, chiamando a raccolta tutti quei “vagabondi del Dharma” in cerca di giustizia tra le lande desolate della fine della storia. Nella reciproca influenza culturale con i nostri valori Yukio Mishima è riuscito a farli suoi e ri-conoscerli – erano già suoi, doveva solo allontanarsi da sé, immergendosi nei turbini della decadenza per riemergere “nuovo” – e portarli a farsi carne non solo per sé stesso e per il suo popolo, ma per tutti coloro che hanno ancora l’ambizione di specchiarsi nel Sole: quasi ad aver voluto restituire, con superba generosità, i doni offerti da Apollo alla sua vita.

O VITA, o Vita I dono terribile del dio, I come una spada fedele… (Laus Vitae, I vv.1-3)

Sergio Filacchioni

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