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L’utopia di un calcio popolare

by La Redazione
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Milano, 18 mar – Non vorremmo passare come degli inguaribili nostalgici che guardano solamente ad un passato mitico, ad un’ipotetica età dell’oro nella quale il calcio era qualcosa di totalmente puro, popolare come si suol dire. Sappiamo che si tende sempre a mitizzare le epoche precedenti, ignorando (o per lo meno facendo passare in secondo pieno) le storture che pure vi erano presenti, ma è altresì vero che negli ultimi anni il calcio sembra soffrire decisamente di bulimia, in preda ad una gargantuesca fame di partite e competizioni.

Ecco che così la UEFA ci propone il Mondiale per club a 32 squadre, la FIFA (nella quale Infantino riesce persino nell’impresa di far rimpiangere Blatter) passa al Mondiale a 48 nazionali con ben 104 partite e in Italia la Supercoppa nostrana passa a 4 compagini, tanto per prendere più soldi dai sauditi. Capite bene che in questo siffatto contesto tanti tifosi magari non di primo pelo hanno iniziato a dire basta e a provare a cercare una via alternativa, via ovviamente molto difficile da perseguire, ma anche altrettanto affascinante. Come al solito i primi a tentare questo approccio sono stati i sostenitori inglesi, sempre molto attenti alla dimensione popolare del Football e anche i primi, tramite la Premier League, a subire una decisa accelerata verso il calcio business.

A proposito di calcio popolare, qualche esempio inglese

Due casi su tutti meritano una menzione. Nel 2002 il glorioso Wimbledon FC da Londra venne trasferito a Milton Keynes, a circa 100 km da casa, cambiando anche la denominazione sociale. Ovviamente i tifosi non presero affatto bene la decisione e, con enormi sforzi sia economici che di tempo, riuscirono a creare l’AFC Wimbledon, dove la denominazione AFC sta per A Football Club. Tra alti e bassi sono riusciti addirittura ad arrivare fino alla League One, mentre ora sono in League Two (la quarta serie inglese), ma soprattutto hanno ricostruito lo storico vecchio stadio di Plough Lane, per completare l’opera di riappropriazione della propria squadra e delle proprie radici e tradizioni.

Pochi anni dopo, precisamente nel 2005, alcuni tifosi del Manchester United, delusi dalla proprietà statunitense dei Glazer decisero di fondare l’FC United of Manchester, per cercare di preservare i valori alla base dei gloriosi Red Devils. Il club, che gioca le sue partite a Broadhurst Park, è sempre rimasto nell’ambito della cosiddetta Non-League (vale a dire sotto le prime quattro serie), facendosi anche carico dell’organizzazione di tornei internazionali. Eric Cantona ne è un grande sostenitore, tanto che i tifosi della squadra compaiono anche nel film del 2009 di Ken Loach Il mio amico Eric, con proprio il campione francese tra i protagonisti. Sull’esempio di Wimbledon e Manchester sono tanti i club che sono stati creati secondo questi principi, tanto che ogni anno viene celebrato il Non-League Day, una vera e propria festa dei club dilettantistici.

Un calcio popolare all’italiana

In Italia ci sono stati progetti simili, ma più limitati e meno ambiziosi, anche perché sappiamo bene quanto la nostra burocrazia si metta troppo spesso di traverso, ma vogliamo raccontare brevemente una storia romantica partita da un oratorio della periferia bergamasca. Siamo nel quartiere di Boccaleone e nel 1948 prende vita l’Unione Sportiva Oratorio Boccaleone, ma la svolta avverrà nel 1977, quando l’imprenditore bergamasco Giovanni Ghisleni rileva la squadra e ne cambia il nome in Centro Giovanile Virescit Boccaleone. Il colore sociale era il viola, il simbolo il leone ed il campo da gioco l’Oratorio Boccaleone, dalla capienza di ben 100 posti. In due stagioni l’approdo in Serie D e nel 1981 la prima promozione tra i professionisti in C2, nel 1985 la promozione in C1, nel 1986 la conquista della Coppa Italia di Serie C (che garantì la prima storica partecipazione alla Coppa Italia) e nel 1988 la Virescit sfiora addirittura la Serie B, sconfitta solamente allo spareggio dalla Reggina. Esisteva persino un gruppo ultras, la Torcida Viola.

Purtroppo tutte le favole hanno una fine ed i costi sempre più proibitivi di gestione (la squadra ovviamente si era dovuta trasferire al Comunale di Bergamo per le gare interne) costringono il presidente Ghisleni (venuto a mancare purtroppo la scorsa settimana) a cedere il titolo sportivo all’Alzano. Cosa resta però di questa vicenda? Il sogno di un calcio che nasce dal basso e che ha lanciato giocatori del calibro di Bonacina, Barcella, Didonè e Simone, che troverà gloria mondiale nel Milan.

Come detto all’inizio di questo editoriale, non fantastichiamo certo un ritorno a un improbabile passato, ma forse, a fianco del grandissimo calcio, c’è ancora un po’ di spazio per l’utopia di un calcio popolare. In fondo basta crederci.

Roberto Johnny Bresso

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