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Dopo le larve, la carne sintetica: Beppe Grillo e il solito pippone sulla “sostenibilità”

by Cristina Gauri
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Roma, 31 mar — Smaltito l’entusiasmo per gli hamburger di larve e cavallette — l’anno scorso li avrebbe voluti distribuire nelle mense scolastiche — Beppe Grillo si lascia immancabilmente sedurre da un altro feticcio del cibo presuntamente sostenibile, la carne sintetica. E lo fa, come suo solito, tessendone le lodi dalle pagine del suo blog.

Grillo si innamora della carne sintetica

Prodotti come la carne sintetica, o carne coltivata in laboratorio, per Grillo rappresentano «una concreta alternativa agli allevamenti intensivi e alla macellazione, poiché per essere prodotti non richiedono la sofferenza e la morte di nessun animale». Gli insetti, invece, va benissimo che muoiano, perché non sono animali fuffolosi. Invece di allevare un intero pollo senziente, «con becco e piume, coltiviamo la carne direttamente a partire dalle cellule muscolari».

Con buona pace della filiera nostrana: migliaia di allevatori e l’intero comparto della produzione lattiero casearia possono scomparire in una voragine nel nome della (presunta) sostenibilità ambientale, per non parlare delle eccellenze nazionali. Ma chi se ne frega se «possiamo raccogliere le cellule e i tessuti e trasformarli in una crocchetta, una crocchetta che sin dall’inizio era priva di ossa e di pelle e fatta interamente di carne bianca», giusto?

L’immancabile riscaldamento globale 

Il pippone sul riscaldamento climatico non può mancare: dobbiamo rassegnarci alla carne cresciuta in una scatola di Petri per non fare piangere Greta. Chissà se pure Grillo è disposto a rinunciare al taglio di chianina. «Sapevate che il nostro gregge mondiale di animali da allevamento è una delle maggiori cause e al contempo vittime del cambiamento climatico? Da una parte, le mucche da sole producono il 9% delle emissioni totali di gas serra», spiega il comico citando la scienziata Isha Datar, direttrice dell’istituto di ricerca New Harvest, dedicato proprio all’agricoltura cellulare.

Oggi «un terzo del pianeta, il 27% circa, grosso modo equivalente a tutto il Nord e il Sud America messi insieme, viene destinato all’allevamento del bestiame». Se questo cambiasse, diventerebbe «possibile scegliere di fare cose come ripristinare la foresta amazzonica, che disboschiamo per il bestiame». L’Onu sostiene che «dovremo ripristinare la natura su un terreno grande quanto la Cina, se vogliamo raggiungere la resilienza climatica. L’agricoltura cellulare offre questa possibilità». Nel frattempo, chi di allevamento ci vive, è destinato a soccombere, e con essi millenni di cultura agropastorale.

Cristina Gauri

 

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