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Afghanistan e non solo: l’ossessione patologica dell’Occidente per le “vittime”

by Giovanni Damiano
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Roma, 29 ago – Al di là della miriade di improvvisati commentatori sul tema che oggi imperversa dappertutto, già nel 2020 un testo di Gastone Breccia, uscito per il Mulino, con titolo e sottotitolo “parlanti”, cioè Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, aveva radiografato, come dire, lo “stato delle cose”. Sarebbe pertanto il caso di leggerlo o rileggerlo.

Questo breve scritto non ha invece nulla a che fare con l’attuale crisi afghana. La prendiamo semplicemente ad esempio di quel meccanismo, tutto occidentale ed europeo, che ben potrebbe essere definito sindrome vittimaria. Riguardante cioé l’attenzione assolutamente spropositata – tanto da essere oramai patologica – nutrita appunto dall’Occidente per le “vittime”. Qualunque esse siano, purché, ovviamente, abbiano avuto la fortuna di rientrare in questa privilegiatissima categoria. In breve, l’empatia verso le “vittime” è oggi considerata una cifra distintiva e dirimente della moralità occidentale. Un qualcosa da cui non si può recedere in alcun modo, pena, addirittura, la perdita in buona misura della nostra identità.

L’ossessione tutta occidentale per le “vittime”

Una vera e propria ossessione per l’empatia nei confronti delle “vittime”, che ha ancora qualche (isolata) voce contraria. Pensiamo al libro di Paul Bloom, Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri, 2019), dove è soprattutto il sottotitolo ad avere un’importanza capitale, ma che ha pure, e non potrebbe essere diversamente, una sua genealogia, illustrata perfettamente da un libro come quello di Henning Ritter, Sventura lontana. Saggio sulla compassione, edito da Adelphi nel 2007.

Leggi anche: Il tramonto del mondo bianco, ovvero l’Occidente che divora se stesso

Ora, Ernst Jünger nelle pagine finali de L’Operaio, relegandolo quasi distrattamente in una nota, scrive qualcosa di decisivo: “Si ha un rapporto concreto con l’uomo se la morte del nostro amico Tizio o del nostro nemico Caio ci colpisce più profondamente della notizia che 10.000 uomini sono annegati in seguito a un’inondazione del Fiume Giallo. La storia dell’umanità astratta, invece, comincia con riflessioni di questo tipo: se sia più immorale uccidere un nemico concreto a Parigi, oppure uccidere uno sconosciuto mandarino in Cina premendo un bottone”.

La moralizzazione della politica: un’empatia senza confini

Queste parole di Jünger hanno una storia alle loro spalle, che proprio il testo di Ritter cerca di mettere in luce, partendo dalla più generale considerazione che l’uomo occidentale ha tra le sue “poche certezze” la “capacità di immedesimarsi nell’altro”, in modo che una “simile empatia” non conosca “confini nel tempo e nello spazio”. Ragion per cui (esempio spaziale) “una catastrofe verificatasi dall’altra parte del globo dovrebbe suscitare la stessa compassione di una disgrazia accaduta nelle immediate vicinanze”. Così come (esempio temporale) “quel che gli indigeni subirono durante la conquista dell’America dovrebbe toccarci esattamente come un’ingiustizia a noi contemporanea”.

Sono passi lucidissimi che spiegano davvero molto. Ma è la ricostruzione genealogica di Ritter ad essere fondamentale. Infatti la Cina come esempio di distanza geografica e dunque morale è un topos della filosofia settecentesca. È in Diderot, ad esempio, che si ritrovano analizzate le “implicazioni morali della distanza” proprio facendo ricorso alla Cina, così come è D’Holbach a scrivere che “l’umanità è un nodo che unisce il cittadino di Parigi a quello di Pechino” (commenterà Arnold Gehlen che per un D’Holbach “i cittadini di Parigi e di Pechino erano vicini della porta accanto”). Mentre è Adam Smith in Teoria dei sentimenti morali a parlare della reazione di un europeo compassionevole alla notizia di una catastrofe avvenuta in Cina.

È insomma nel Settecento filosofico dei Lumi che la sventura lontana diventa oggetto di una riflessione morale apparentemente sganciata da ogni retroterra religioso. Dunque “pronta all’uso” da parte di una società in via di profonda secolarizzazione. Una compassione per gli sventurati non più gravata dall’eredità religiosa e pertanto adatta a fungere da fondamento della nuova morale laica. Quella che proprio i Lumi stavano edificando e che poi troverà la sua santificazione, attraverso l’ulteriore passaggio della moralizzazione della politica, durante l’epoca rivoluzionaria. I risultati sono davanti ai nostri occhi.

Giovanni Damiano

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1 commento

fabio crociato 29 Agosto 2021 - 12:23

Per i soli razionalisti la vittima appare sempre come un errore, ma devono finirla di scaricare su tutti ! Ne abbiamo già abbastanza dei ns. errori…

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