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Aggredire e sconvolgere contesto e territorio: il modernismo nell’arte e nell’architettura

by La Redazione
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modernismo architettura

Roma 13 apr – Oggi il modernismo in architettura, nelle sue varie declinazioni formali, viene presentato in un repertorio di contributi di così incondizionata approvazione da indurre a pensare ad una nuova apologetica del sapere. Libri e riviste di architettura sembra che pongano più attenzione alla raffinatezza della carta e al design della grafica che al contenuto, essendo l’espressione di una cultura professionale che si esibisce per vanità autocelebrativa. Il linguaggio è spesso complicato e oscuro, in una forma gergale e supponente. E’ lo specchio di una cultura in debito di ossigeno verso archetipi e significati ormai dispersi, di una cultura che cerca un facile approdo nella tecnologia e nella scienza, camuffandosi in forme originali e eccessive, ma solo bizzarre nella loro pochezza.

Un’architettura banalizzata dalla tecnologia

Nel Rinascimento la formazione degli architetti avveniva con un attento studio critico dei capolavori del passato. Nel diciottesimo secolo l’Accademia di Francia dettava le regole del buon costruire con una formale investitura culturale. Oggi lo studio della ”antichità”, come usava chiamarla Norman Shaw, è del tutto superficiale, quando non addirittura dannoso per l’impossibilità di avere una adeguata formazione in mancanza di maestri all’altezza. Reginald Blomfield, docente e storico dell’architettura degli anni ’30, constatando il declinare delle forme verso una preoccupante aridità, affermava: “Sembra che la grande architettura non fosse mai esistita prima del ‘900, il modello di un municipio era un edificio lungo, basso, con una torre alta e magra ad una estremità e quello di una casa una scatola con dei buchi”.

La mancanza di una formazione culturale allargata ad ogni branca del sapere e non ristretta a discipline tecniche e di mestiere, che già allora aveva denunciato Blomfield, non faceva altro che anticipare i limiti che oggi lamentiamo. Quelli di un’architettura banalizzata dalla tecnologia, conseguenza di uno strappo forse insanabile con il passato e di una cieca schiavitù alla macchina.

Arriva il modernismo

Già Nietzsche in una conferenza sull’avvenire delle nostre scuole lamentava uno stato di disagio culturale preoccupante, quando con enfasi si chiedeva: “Chi vi condurrà alla patria della cultura, se le vostre guide sono cieche e si spacciano per gente che vede; chi di voi perverrà al vero sentimento della sacra gravità dell’arte, se venite viziati sistematicamente a balbettare soli laddove vi si dovrebbe guidare, a meditare e a filosofare soli sull’opera d’arte, laddove vi si dovrebbe costringere ad ascoltare grandi pensatori e tutto ciò con il risultato che rimarrete eternamente lontani dall’opera d’arte e resterete servitori dell’oggi”.

Il modernismo, come tutti gli ismi denotanti una deriva dal significato originario, affonda le sue radici nell’intellettualismo dei nostri giorni. Come diceva De Chirico, alcuni vogliono sembrare intelligenti senza alcuna predisposizione a capire, ma semplicemente desiderosi di seguire ogni tendenza con la loro falsa idea di progresso. L’intellettualismo ha modificato il significato delle parole, talvolta alterandolo profondamente, ha creato un linguaggio di maniera, ha introdotto nuovi modi di rapportarsi con la realtà del commercio e del prevalente interesse economico.

Così ha prodotto mestieranti della cultura affettati e sine nobilitate, come si conviene alla migliore tradizione dello snobismo. I critici d’arte, nati in concomitanza con l’avvento dei primi mercanti, hanno introdotto un linguaggio talora confuso ed ermetico. Hanno inventato una tecnica descrittiva e interpretativa nuova, hanno “visto” in certe opere quello che non vi era da vedere, esaltando cose straordinarie laddove non esisteva altro che il nulla.
Il critico, come il mercante d’arte, si era così reso complice di operazioni di mercato abilmente orchestrate per addomesticare un pubblico incolto e impreparato, quindi facilmente suggestionabile. Una volta l’arte era per conoscitori e materia di riflessione di poeti e scrittori come Sainte-Beuve, Baudelaire e Apollinaire, che in scritti isolati dedicavano la loro attenzione con lo spirito e la sensibilità della loro cultura.

Nella pittura come nell’architettura il modernismo e l’intellettualismo percorrono strade parallele. In Cezanne, che per un certo periodo della sua vita fu un mediocre pittore ottocentesco, la svolta interpretativa si determinò con la cubificazione delle forme in un modo spoglio, sfaccettato e geometrico. C’è chi aveva capito che la novità e la vera bruttezza avrebbero potuto sostituire con buon successo la falsa bellezza di quei tempi e l’intellettuale così avrebbe avuto buon gioco a manifestare il suo intellettualismo con rinnovata abilità incantatrice.

Modernismo e internazionalismo

Non diversamente, appunto, si manifestò il modernismo nell’architettura. Nel secolo XX con le opere di ispirazione ingegneresca si ebbe una svolta nella storiografia ufficiale che celebrò l’avvento di una nuova era. Vengono esaltati i nuovi materiali e le nuove tecnologie come espressione di nuove conquiste formali sino a fare della Tour Eiffel il simbolo-monumento della nuova epoca. Ma l’invasione del modernismo nell’architettura, come afferma Blomfield, ebbe conseguenze ben più preoccupanti: “E’ una questione più seria delle sue incursioni nella pittura, scultura, musica e letteratura…essa presenta il suo fronte sfacciato nelle nostre strade e nella nostra campagna ed è troppo grande e troppo costosa perché la si possa distruggere completamente”.

Con l’imporsi dell’internazionalismo in architettura, ovvero di un indifferentismo formale verso il luogo e la tradizione, contro ogni forma di autonoma ricerca progettuale legata al contesto e al territorio, si affermava il concetto di standardizzazione, parallela al processo di industrializzazione dei materiali, con effetti invasivi nel territorio di anonimi contenitori più simili a scatole d’imballaggio che a opere degne di una minima qualità formale. In altri termini si cedeva il passo a quella che oggi si potrebbe chiamare globalizzazione estetica, in spregio a culture e tradizioni.

Al grigiore ed alla melanconica monotonia di anonimi parallelepipedi residenziali fa da
contrappunto la realizzazione di strutture di insolente e volgare fattura in omaggio al potere
consumistico e commerciale. Le nuove “cattedrali” del consumo si contendono dimensioni sempre più grandi, da super a ipermercati sino a cittadelle del divertimento e dello svago, diventando il polo di attrazione di masse di individui destinate al più delirante spreco del tempo nella storia. Il modernismo come una piovra assale il territorio e lo stravolge, mentre i centri storici restano nel museo della storia, consegnati al turismo cosiddetto culturale come simulacri di un passato inerte e impossibilitato a dialogare con il mondo contemporaneo.

Un fondamentalismo architettonico ben costruito e argomentato si afferma nei grandi progetti, detta le linee guida del buon operare, mentre le lobbies della cultura distribuiscono riconoscimenti e premi ai sostenitori e diffusori della nuova era. Alla machine à habiter di Le Corbusier, struttura multicellulare che riduce l’uomo a atomo indiferrenziato con funzioni prestabilite, si contrappone il pensiero di F.L.Wright che nella “Citta vivente” afferma: “L’architettura à organica solo in quanto intrinseca… di riflesso cerca di servire
l’uomo piuttosto che diventare una forza che cerca di dominarlo”.

Il trasformismo dell’epoca moderna procede con insolente determinazione alla ricerca di vie
d’uscita da una standardizzazione ormai esausta e si inventa il post-modern, sorta di miscellanea stilistica che cerca di riossigenare un movimento ormai in declino. Ma anche questo tentativo appare segnato da un rapido esaurimento. Come sostiene Cesare De Seta, “dopo cinquant’anni i post- modern hanno messo in vetrina un repertorio stilistico che rimanda all’ottocento… in tempo di revival tutto è concesso, ma non si può gabellare questo fenomeno come una risposta alla crisi del movimento moderno… è un guardare a ritroso un po’ goffo che ha dato luogo ad espressioni modeste”.

Il territorio aggredito

L’architettura viene attratta sempre di più in una specie di spirale tecnologica, proponendo soluzioni con materiali e sistemi definiti talora sbrigativamente innovativi, ma che spesso di innovativo non hanno nulla, in quanto rispondono soltanto a esigenze di mercato. Il predominio della tecnica, come risorsa per aumentare le prestazioni della casa-macchina,
indirizza la progettazione verso una tecno-architettura che deve esprimersi in discutibili soluzioni formali, indifferenti al contesto preesistente Il territorio viene aggredito e sconvolto da un’urbanistica totalitaria più interessata a grandi complessi, a corpi verticali di grande richiamo e effetto, più che a governare flussi di traffico e salvaguardare la vivibilità.

City Life in questo senso ne è un esempio puntuale, con le sue torri sghembe e contorte che sembrano concepite in un delirio onirico di folli immaginazioni. Espressione di un potere assetato di conquiste sul territorio per meglio rappresentarsi. La torre più alta del City Life, con la sua altezza tre volte superiore al grattacielo Pirelli viene rappresentata come la torre di Babele dei tempi moderni: un semplice dato statistico che fa ricordare la considerazione amara di Giorgio Locchi sui turisti americani in visita alla Tour Eiffel. Diceva Locchi che il loro esclusivo interesse era quello di sapere quanto fosse alta e quanto pesasse. Ma forse questa è la vera essenza del modernismo. Ridurre tutto a dato, in quanto di altro c’è poco o nulla da ricordare.

Roberto Ugo Nucci

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1 commento

Fabio Crociato 13 Aprile 2020 - 6:31

City Life (MI), se ci fate un po’ più caso, visto da non molto lontano, non sono altro che edifici riprendenti dalle navi da crociera (!), con un tocco che pare da coca derivato. Intanto, proporzionalmente, viale Tunisia (p.es.), da importante strada di attraversamento, scorrimento cittadino è diventato un imbuto-vicolo. Riempire, riempire, occupare, occupare, annullare lo spazio libero e possedere tutto… questa è l’ architettura post-sessantottina. Da rifilare agl’ altri, ovviamente. Bosco verticale…, termine da squinternati.E i coglioni pagano, o meglio, pagavano perché anche il yes-man B.Sala da tempo si è lasciato scappare qualche lamento… verticale! Forse è il requiem per le città come le abbiamo sempre intese. Fuori realtà, dentro follia.
Bene il Vs. articolo al fine di risvegliare riflessioni critiche…

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