Roma, 5 mag – Janis, Jim, Kurt e Amy sono morti a 27 anni. Anche Robert è morto a 27 anni, solo che lui un terzo dei suoi anni da vivo li ha passati in prigione anziché su un palco o in una sala di registrazione, come loro. Parlava anche lui inglese, come gli altri, ma con i suoi amici si esprimeva in una lingua più aspra e antica. Si chiama Robert Gerard, ma per tutti era semplicemente Bobby. Bobby Sands. Ed è morto 35 anni fa.
Entrare nelle file dei nazionalisti, per chi nasceva nei sobborghi di Belfast all’epoca dei Troubles, non richiedeva una particolare vocazione. Bobby capì qual era la sua strada quando, al primo giorno di lavoro da carrozziere, trovò sulla porta tre tipi che stavano pulendo dei fucili: “Li vedi questi? Bene, se non te ne vai alla svelta li proveremo contro di te”, gli dissero. Più per far dispetto che per altro, ci rimase per due anni, fino a che non fu licenziato per via di una ristrutturazione dell’azienda che, a quanto pare, sembrava riguardare solo lui. Presto Bobby entro nell’Ira: divenne membro del Primo battaglione della Brigata Belfast. La strada che conduceva alle carceri britanniche si faceva di colpo più breve. Molto più breve. Il ragazzo cominciò ad entrare e uscire di prigione, spesso senza processo, come prevedeva una delle delizie della condizione coloniale nordirlandese. Fino a che, nel settembre 1977, Sands fu processato per possesso illegale di armi da fuoco e condannato a 14 anni di carcere.
L’anno precedente, Londra aveva abolito lo Special Category Status garantito a partire dal 1972 a tutte le persone che venivano arrestate per cause legate al movimento separatista dell’Irlanda del Nord. I militanti repubblicani erano divenuti semplici delinquenti comuni e i tumulti dell’Ulster un problema di ordine pubblico. Anziché portare la divisa dei galeotti, i prigionieri dell’Ira preferiscono non indossare nulla: è la blanket protest, la protesta delle coperte, unico indumento indossato dai combattenti nazionalisti. È solo l’anticamera di un inferno che sta per arrivare: nel 1978 scatta la dirty protest. I prigionieri spalmano gli escrementi sui muri delle celle e buttano l’urina sotto le porte. Questa situazione va avanti per 4 anni. Poi i prigionieri dell’Ira si decidono per lo sciopero della fame: sette detenuti digiunano per 53 giorni. Qualcosa nelle trattative si sblocca. No, falso allarme, la protesta ricomincia. Il primo a dar vita al secondo sciopero della fame è Bobby Sands, che rifiuta il cibo il 1º marzo 1981. Dopo 66 giorni e una elezione in Parlamento, il 5 maggio 1981 Bobby Sands muore. Altri nove uomini lo seguono. Nel suo diario, scritto di nascosto e fatto uscire clandestinamente da quel Blocco H del carcere di Long Kesh che sarà la sua tomba, Bobby aveva scritto: “Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra. Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata. Questa è la ragione per cui sono carcerato, denudato, torturato”.
La ribellione nordirlandese ha marchiato a fuoco il cuore di una generazione e ha continuato a essere venduta, come la Guinness, a quelle successive. Oggi Belfast è una città occidentale, una delle più occidentali d’Irlanda. Lo si vede dalle ragazze, che sono più carine, più magre e più ben vestite che nel resto del Paese, dove sono imbruttite da troppa birra, troppe patate e troppi rosari. Falls Road è un museo a cielo aperto, che ha il suo equivalente lealista e meno mediatizzato in Shankill Road, i due poli della topografia politica della città, ma si tratta in entrambi i casi di industria culturale. In qualche periferia, beninteso, il conflitto può restare ancora carne viva. Ma chi brama oggi l’odore acre delle barricate, a Belfast, molto spesso è solo alla ricerca della sua personale intifada celtica. Transfert, nient’altro. I depositari di quella memoria, peraltro, sono spesso deludenti sentinelle del politicamente corretto.
Bobby Sands non è morto per noi e non è morto neanche per l’Europa. È morto per la sua nazione, che comunque conserva qualcosa di magico e di intrinsecamente mistico. Con la sua nazione, egli si è identificato fino alla santità, fino al martirio. Oggi lo si può onorare per quello che avremmo voluto che fosse o per quello che realmente fu, solo che nel primo caso in realtà stiamo solo celebrando noi stessi. Di sicuro è stato un combattente, non un indignato. Ha incarnato una rivolta anziché recitarne il simulacro. Ha avuto una fede che sovrasta ogni sua possibile opinione. Dal paradiso degli uomini autentici, oggi è egualmente lontano dai pagliacci di ogni confessione e latitudine politica. Cioè, praticamente, da quasi tutti.
Adriano Scianca
2 comments
Smisi di parteggiare per i cattolici nordirlandesi dopo le bombe da Harrods.
Tranne il riferimento (quasi subdolo) ai troppi rosari, che trovo fuori luogo essendo innegabilmente parte dela ribellione irlandese, articolo – e finale – da incorniciare