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Giovanni Gentile e i «profeti» del Risorgimento italiano

by Corrado Soldato
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Roma, 8 mag – Quando nel 1923 diede alle stampe, per la casa fiorentina Vallecchi, la prima edizione de I profeti del Risorgimento italiano, Giovanni Gentile vi antepose una dedica a Benito Mussolini. Il quale, scriveva il filosofo, da «italiano di razza», era «degno di ascoltare la voce dei profeti della nuova Italia». Era un omaggio, quello rivolto da Gentile al Duce, di cui è bene evidenziare due occorrenze – il termine «profeti», che campeggia anche nel titolo del volume, e l’espressione «nuova Italia» – utili a lumeggiare sia ciò che rappresentava, per Gentile, il Risorgimento nel divenire storico della nazione italiana. Sia il nesso di continuità che il filosofo istituiva tra il Risorgimento e il fascismo, sia il carattere per così dire «provvidenziale» e «aperto» che la vicenda unitaria. Intesa come processo di rigenerazione nazionale, assumeva nella filosofia attualistica della storia.

Tre edizioni, vivente Gentile

Torneremo più avanti su tali significative implicazioni del lavoro gentiliano. Non prima però di avere fornito alcune indicazioni sulla struttura dell’opera. E sulle modifiche che essa subì nelle edizioni che videro la luce mentre il suo autore era ancora in vita. La prima edizione dei Profeti, quella di Vallecchi, comprendeva due testi, già pubblicati nel 1919 sulla rivista nazionalista «Politica»: un saggio su Giuseppe Mazzini e uno su Vincenzo Gioberti. Seguirono, a quella prima stampa, una seconda, nel 1928, «con lievi modificazioni di semplice forma». E una terza, uscita sempre a Firenze (ma per l’editore Sansoni) nel 1944, lo stesso anno dell’assassinio del filosofo per mano dei partigiani gappisti.

Era un’edizione, quella sansoniana, che a differenza della precedente risultava «accresciuta». Nel senso che Gentile vi aggiunse altri scritti su Mazzini e Gioberti. Oltre a due capitoli dedicati a Goffredo Mameli (l’autore del testo del «fatidico inno» le cui note, tornando «a suonare al nostro orecchio», fanno sì che «il nostro petto si allarga a più vasto respiro») e a Giuseppe Garibaldi («con il cui nome», scriveva Gentile, «mi piace finire perché esso ha virtù oggi come sempre di riscuotere e riunire i cuori di tutti gli italiani»). Senza dimenticare, nella parte intestata all’«eroe dei due mondi», un accenno a Vittorio Emanuele II. Di cui si evidenziava la capacità di «mirabilmente incarnare il re legittimo, che sa andare incontro alla rivoluzione per dominarla, non combattendola, anzi realizzandone i postulati essenziali».

Una «storia del presente»

Vicissitudini editoriali a parte, i Profeti del Risorgimento, va detto, è un libro di filosofia (o meglio di storia filosofica) più che una classica collezione di ritratti dei principali ispiratori (e realizzatori) dell’unificazione politica italiana. Il che, del resto, non sorprenderà più di tanto i cultori dell’attualismo gentiliano. Per tale filosofia infatti, se la storia è il regno della libertà, di cui protagonista e artefice è lo spirito umano, «una storia […] bella e compiuta, preesistente allo spirito che la afferma e che la narra» cadrebbe nel naturalismo; ossia non avrebbe uno statuto epistemologico diverso da quello dell’indagine scientifica sulla natura, dominio di un determinismo antitetico alla libera creatività dello spirito. Per Gentile, quindi, una storia tutta rivolta a meditare un passato irrevocabile – «che non dipende da noi, e che ci condiziona» – non è filosoficamente accettabile.

Ciò che ha valore speculativo, invece, è una «storia del presente», immanente all’atto stesso del pensiero che pensandola la costruisce e, con ciò, la ri-attualizza. Onde per cui, già precisava Gentile in un testo del 1920 (Politica e filosofia), tale storia presenziale «non risolve mai propriamente […] problemi concernenti le generazioni passate»; essa si rivolge, piuttosto, a «problemi attuali e vivi nel suo [dello storico] spirito». Ciò detto, si comprende il motivo per cui i Profeti non è una di quelle narrazioni dal sapore positivistico («ecco un fatto storico, che a me ora non tocca se non di verificare e narrare fedelmente») che si trovano in molti libri sul Risorgimento.

Ri-appropriarsi di Dante

Nei Profeti, piuttosto, Gentile si ri-appropria, pensandoli nella loro attualità, di Mazzini e di Gioberti, come anche di Mameli, Garibaldi e Vittorio Emanuele. E lo fa al modo in cui, si legge in Politica e filosofia, ci si dovrebbe ri-appropriare di Dante Alighieri. Avvicinandolo, cioè, non come l’uomo «che morì nel 1321», ormai trascorso e consegnato agli annali. Ma come il poeta che è attuale nel pensiero di chi lo pensa. Il grande poeta «che vive in noi che lo leggiamo e intendiamo, e insomma lo realizziamo spiritualmente».

Il corso divino e provvidenziale della storia

Ma perché, ci si può interrogare con il Gentile dei Profeti, al «problema dell’esistenza nazionale» da cui scaturì il Risorgimento – quel problema sempre da pensare come vivo e attuale nella coscienza storica degli italiani – si additò una «soluzione a mo’ di profezia»? Prophetes è parola greca, che ha in vates l’equivalente latino. Essa indica chi preannuncia, in virtù di un’illuminazione divina, ciò che deve avvenire e che perciò è giusto che avvenga (profeti furono, in tal senso, non solo i veggenti biblici, ma anche i poeti ispirati e gli antichi oracoli). Ebbene, non deve stupire in Gentile l’utilizzo, in un’opera sul «laico» Risorgimento, di un concetto – «profezia» – così intimamente legato alla storia delle credenze religiose.

Divino e provvidenziale è infatti per il filosofo, sulla scorta di Giambattista Vico, il corso della storia. Seppur nel senso immanentistico e volontaristico che a esso attribuiva l’attualismo. Il che, tornando al Risorgimento e ai suoi «profeti», significa questo: se lo spirito umano, nel divenire storico di cui è costruttore, vuole agire moralmente (dunque, per così dire, religiosamente). Deve allargarsi dal particolare (ambito dell’individualismo egoistico) all’universale (dominio dell’etica e, di conseguenza, della politica). Ragion per cui ogni popolo diviso che avverta, perlomeno nelle sue élite, l’esigenza di farsi nazione, deve mirare con ciò stesso a farsi Stato. Ad assumere, cioè, quella più generale e unitaria configurazione spirituale che, per Gentile, è il soggetto creatore della nazione (quello che, per citare la Dottrina del fascismo del 1932, «dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza»).

Il Risorgimento come «profezia» incompiuta

La «profezia del Risorgimento» era dunque la proclamazione di un destino – da intendersi non come necessità fatale, ma come libero dovere da compiere – iscritto nella storia progressiva dello spirito. Una storia, però, tutt’altro che conclusa. Così infatti scriveva Gentile, nella prefazione ai Profeti: «io non sono di quelli che la credono [quella profezia] già compiuta col 20 settembre 1870 [la breccia di Porta Pia] e con Vittorio Veneto [la vittoria nella Grande Guerra]». La questione nazionale che i patrioti risorgimentali avevano provato a risolvere – chi con la rivoluzione, come Mazzini, Mameli e Garibaldi; chi con la diplomazia e le armi sabaude, come Vittorio Emanuele e il Gioberti del Rinnovamento civile – restava quindi, per Gentile, un problema aperto. Dopo la presa di Roma e l’annessione di Trento e Trieste, il Risorgimento era ancora un’impresa in fieri.

Una constatazione, questa, ancor più apodittica nel momento in cui, nel marzo 1944, Gentile licenziava l’ultima edizione dei Profeti. Nel cuore incandescente della guerra civile (di cui il filosofo stesso sarebbe caduto vittima), più che continuare il progetto di costruzione di una grande Italia avviato nell’Ottocento, era infatti urgente fronteggiare la minaccia della dissoluzione di ciò che il Risorgimento aveva creato. Per tale motivo, secondo Gentile, in quel tragico frangente della storia italiana, le «guide spirituali del nostro Risorgimento nel suo periodo eroico», lungi dal poter essere fissate (per parafrasare Giuseppe Bottai) quali «morte farfalle» sull’album ingiallito di una storia trascorsa, avevano ancora «una parola da dire e un insegnamento da inculcare» agli italiani.

La visione della «terza Roma»

In quanto ispiratori di un rinnovamento nazionale, a quelle «guide spirituali», in primis a Mazzini e Gioberti, andava poi riconosciuto, per Gentile, il merito di aver preconizzato, e in parte avviato e attuato, un progetto caro al filosofo. Ossia l’avvento di una «nuova Italia» che riponesse nel dimenticatoio della storia le angustie e le debolezze della «vecchia Italia».

Quell’Italia per cui, in diverse occasioni, Gentile aveva ostentato disprezzo. L’Italia estenuata e imbelle di un certo Rinascimento e della prima età moderna, di cui egli riteneva responsabile, più che la classe politica, un ceto intellettuale esangue. Il quale, per ricorrere al linguaggio di Mazzini, non voleva né poteva tradurre le idee in azioni. La profezia della «nuova Italia» infine era anche, per il filosofo, il vaticinio di una «terza Roma», che continuasse la missione dell’Urbe. Raccogliendo la fiaccola civilizzatrice dei Cesari e dei Papi. Una visione presente in Mazzini, nel discorso sulla «Roma del popolo» pronunciato nel 1849 alla Costituente capitolina. Ma anche nel Gioberti che, accantonato il neoguelfismo, invocava per una rigenerata Città Eterna la liberazione dal fardello del potere temporale.

Ed era questa, mutatis mutandis, la visione di Gentile, per cui la «terza Roma» non poteva che essere, in continuità con il Risorgimento, quella fascista. La Roma eterna (si legge in un articolo del 1940) cui Mussolini aveva assegnato una «nuova missione storica». La quale, beninteso, non si sarebbe esaurita con il fascismo, essendo essa, per i postulati filosofici gentiliani, un dovere infinito. Un perenne, dialettico sforzo di adeguamento del reale all’ideale. Missione sempre attuale, dunque, finché avesse trovato qualcuno per annunciarla e uomini disposti a battersi per essa.

Corrado Soldato

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