“Dopo dieci anni l’«infamous» Mel Gibson torna dietro la macchina da presa e con il suo talento di cineasta riesce a far (almeno temporaneamente) dimenticare gli episodi di ubriachezza, risse, esternazioni antisemite e omofobe per cui è noto” (“La Stampa”). “Un film non pacifista su un pacifista” (“Repubblica”). Stando alle recensioni, le premesse per un gran film e per querelle di vario genere nel merito della pellicola e del suo regista c’erano e ci sono tutte. Ma, bisogna dirlo, le aspettative non vengono disattese: “La battaglia di Hacksaw Ridge” (soltanto “Hacksaw Ridge” nel titolo originale), ultimo lavoro di Mel Gibson, nelle sale cinematografiche in questi giorni, è un film certamente da vedere.
Candidato a ben sei premi Oscar e tre Golden Globe, in poco più di due ore (139 minuti) Gibson ci racconta la storia di Desmond Doss, cristiano avventista ed obiettore di coscienza che, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, si arruola nell’esercito americano per fare la sua parte ma con una particolarità: al posto del fucile d’ordinanza, Desmond decide di andare in battaglia protetto soltanto dalla sua Bibbia tascabile. Una scelta di fede che lo induce a rifiutarsi persino di addestrarsi all’uso di un’arma ma che non gli impedisce di diventare il primo obiettore di coscienza a ricevere la medaglia d’onore per aver salvato la vita di ben 75 soldati in occasione della battaglia sulla scogliera di Maeda ad Okinawa, sul fronte giapponese, svolgendo ai limiti dell’umano il suo compito di medico militare. Rifiutato inizialmente dai commilitoni ed accusato di vigliaccheria proprio per la sua scelta, Doss conquisterà il rispetto di tutti grazie all’impressionante coraggio e spirito di sacrificio dimostrato, rimanendo sul fronte nemico per tutta una notte e per diverse ore dopo la fine della battaglia, soltanto per portare in salvo quanti più feriti possibile. Una storia vera che rende Doss icona del pacifismo pur collocandosi molto al di là degli stereotipi hippy sulla non violenza sia dal punto di vista biografico sia da quello cinematografico.
Nessun retropensiero, dunque, sul tentativo di Gibson di rifarsi un’immagine politicamente corretta: la pellicola, infatti, sembra a tutti gli effetti un tentativo sincero di soffermarsi sul tema della fede e della guerra, senza rinunciare ad affiancare alla denuncia degli orrori l’esaltazione del coraggio. Nessun moralismo traspare dalla sceneggiatura ma ad emergere, piuttosto, è un senso di rispetto del regista verso chi tiene il punto, chi ha forza d’animo, chi combatte secondo la propria fede e, appunto, chi ha coraggio. Le scene della battaglia sono crude e, impressionando per realismo, danno quasi l’idea di un film di denuncia: riprese ravvicinate, membra squarciate, corpi maciullati, il fuoco e le bombe che colgono d’improvviso, che sottraggono ogni epica al combattimento, la paura immobilizzante di alcuni soldati, l’assoluta irrazionalità e caos della guerra al netto di qualsiasi romanticismo. Ma, in mezzo a tutto questo, Gibson non rinuncia a raccontarci, ammirato, l’eroismo e non soltanto quello senz’armi di Doss. Il soldato che muore lanciandosi all’assalto, il cameratismo che spinge a proteggersi gli uni con gli altri dal fuoco nemico, il coraggio di chi rischia tutto pur di avanzare e vincere, la fermezza di spirito che induce a superare la paura.
Ecco, dunque, qualche breve considerazione. Senza peli sulla lingua, Mel Gibson ci dice una cosa: una cosa è dire di avere le palle, un’altra cosa è avercele e davanti a chi ha le è più opportuno il silenzio rispettoso che il chiacchiericcio di chi punta il dito. Una cosa sono le chiacchiere, un’altra è la realtà, quindi astenersi perditempo e facili giudici della vita altrui: di fronte al coraggio di chi combatte con dedizione, con o senza armi, ma guardando la paura in faccia e sfidandola, occorre soltanto star zitti. Perché di fronte all’orrore ci si può scandalizzare, si può aver paura o si può comunque fare la propria parte, agire piuttosto che non agire. Ecco perché l’ipocrisia della non violenza mentre chi combatte ti copre il culo, qui viene qui superata dalla spiccata volontà del protagonista di metterla comunque in gioco la sua vita, rischiando quanto e più degli altri. Ed è questa sorta di spalleggiarsi, rispettandosi a vicenda, che alla fine viene fuori, andando persino oltre l’iniziale e forse istintivo parteggiare per Doss contro i soprusi degli altri. Ed ecco perché la scelta del soggetto da parte di Gibson non è, dunque, una scelta di rottura rispetto al passato.
Quanto alla pellicola in senso stretto, qualche critica non può e non deve mancare. Il racconto, nella sua prima parte – quella che precede la battaglia e l’arruolamento, in cui vengono mostrate allo spettatore a mo’ di riassunto breve le lotte spietate e pericolose con il fratello che ne segnano l’infanzia, la causa scatenante la sua vocazione quando salva la vita di un uomo ferito, il padre ex combattente e decorato divenuto alcolista violento e nichilista, rabbioso di fronte alla sua decisione di arruolarsi col rischio di vederlo morire – risulta un po’ stereotipato o perlomeno artificiale, sia nei dialoghi che nel modo stesso in cui sono girate alcune scene. In particolare, contrasta molto con il realismo del film l’incontro da romanzo rosa con la futura moglie Dorothy Shutte, interpretata da Teresa Palmer, nel film infermiera truccatissima e sempre impeccabile quasi fossimo in una soap opera. Ma risulta un po’ fuori luogo e grottesca anche la citazione praticamente esplicita di “Full Metal Jacket”, quando Doss inizia l’addestramento con il sergente Howell (Vince Vaughn), mentre si teme quasi il classico finale americano quando, a un certo punto, dopo l’eroica azione compiuta, Desmond si trasforma quasi in un supereroe, trasfigurando e mettendo in secondo piano persino l’orrore della battaglia, cominciando addirittura a schivare bombe a calci e schiaffi e conducendo il suo battaglione all’inevitabile vittoria. A salvarci da tutto questo, per fortuna, una sorta di omaggio alla cultura giapponese, che fino a quel momento è pressoché soltanto una comparsa sfocata (al di là di piccoli spunti qua e là, come l’accenno agli attacchi suicidi e la descrizione spaventata di chi li ha già affrontati: “sono animali, non gli importa della vita, attaccano di continuo e non si arrendono mai”), con una scena che sembra quasi suggerire il rispetto per l’idea che ognuno muoia secondo la propria fede.
Quanto ad Andrew Garfield, candidato agli Oscar come miglior attore protagonista, già tra gli attori principali in “The Social Network”, bisogna dire che la sua performance non è da considerarsi di troppo superiore a quella che lo ha visto impegnato a vestire i panni del sacerdote gesuita Sebastiao Rodrigues, nell’altrettanto importante film di Martin Scorsese “Silence” nelle sale cinematografiche sempre in questi giorni.
Piccola curiosità: nel film, tra i soldati del battaglione c’è anche Vito Rinnelli, italo-americano dai tratti fisici volutamente caratterizzanti. “Sembra un tappetto ma è un vero bulldog”, dice di lui un commilitone. “Sei un ammiratore di Benito?! Se fossi americano saresti più alto“, lo apostrofa il sergente. Basso, di carnagione scura, sfiora però soltanto da questo punto di vista la descrizione macchiettistica, anche se la frase di Howell è certamente indicativa, e certamente anche riduttiva, rispetto alle difficoltà che gli italiani in America vissero nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Emmanuel Raffaele