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Nei verdi anni della gioventù: perché leggere «La fionda» di Ernst Jünger

by Michele Iozzino
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Ernst Jünger La fionda

«Oh Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle!». Chissà se Ernst Jünger aveva in mente queste parole di Nietzsche quando scelse il titolo per La fionda. Questo è un romanzo di formazione a lungo rimasto inedito in Italia, uscito recentemente grazie all’ottimo lavoro delle Edizioni Settecolori, in cui Jünger tratta della parabola di un giovane orfano di campagna catapultato in un liceo di una città vicina. Tornando alla citazione nietzscheana, è lo spirito di gravità che parla, il nano che pesa sulle spalle di Zarathustra, e così continua per deriderlo: «Hai scagliato te stesso così in alto – ma ogni pietra scagliata deve cadere!». Non è forse una perfetta immagine della gioventù, di quel desiderio di sfidare ogni gravità, quasi di precipitare all’insù, di innalzarsi senza curarsi della caduta?

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di aprile 2022

La fionda di Jünger: un’opera a due facce

Come giustamente nota Luigi Iannone, La fionda è un romanzo duplice fin dal titolo. In tedesco è Die Zwille, dove «Zwille» sta appunto per fionda, ma rimanda a «Zwilling», che significa «gemello». Pur avendo come tema quello della gioventù, La fionda è un romanzo della maturità, pubblicato nel 1973, quando ormai Jünger era quasi ottantenne. Tante le dicotomie presenti: città e campagna, vecchiaia e giovinezza, progresso e conservazione, spirito e materia. Doppiezza che si trova anche nelle ipocrisie della società, nei tanti segreti celati dietro facciate rispettabili. Duplici sono anche i doppi sensi che si scambiano i ragazzi, quasi parlando una lingua iniziatica. Erotismo e scoperta della sessualità che attraversano il romanzo come un filo nascosto.

Si potrebbe andare avanti all’infinito in questo gioco di rimandi duali, andando a squadernare i vari personaggi che si sdoppiano in opposizioni e contrasti. Forse la coppia su cui più di tutte si regge il romanzo è quella di Clamor e Teo. Clamor sarebbe il naturale protagonista del libro; tuttavia Teo gli ruba rapidamente la scena. Entrambi vengono da Oldhorst, dalla campagna. Impacciato e tra le nuvole il primo, smaliziato e sempre a suo agio il secondo. Con il grossolano Buz, anche lui di Oldhorst, formano una specie di gang, un’amicizia asimmetrica: Teo e le sue guardie del corpo.

Che diavolo ci faccio qui?

Clamor rappresenta un’angoscia esistenziale indicibile. Per lui «la paura era sempre presente». Un’angoscia che lo segue come un’ombra e si concretizza nella morte del padre, allo stesso tempo improvvisa e lungamente aspettata. Stroncato mentre è al lavoro, mentre porta l’ennesimo sacco di farina per il mugnaio Braun. È il secondo genitore che perde: della madre, morta nel darlo alla luce, non possiede nemmeno il ricordo. È lo stesso mugnaio Braun a prendere in affido Clamor ma, come per un’oscura persecuzione, muore anch’egli quello stesso anno.

È allora il superus, il pastore di Oldhorst, a prendersi cura del ragazzo. Lo manda in pensione dal fratello per farlo studiare in città. Qui il senso di estraneità e di colpa si acuisce: «Che diavolo ci faccio io qui, che cosa devo scontare?». Clamor si sente costantemente fuori posto, non sa tenere il passo degli altri. Nelle sue absence e nei sui cattivi voti ricorda lo Jünger studente, ma c’è qualcosa di più del semplice dato biografico. Clamor è il Wanderer, il contemplatore. In lui c’è la stessa passione per l’osservazione e la distanza. È anche il Waldgänger, colui che passa il bosco, il ribelle. Un richiamo che viene anche esplicitato: «Anche lui era un Waldgänger, uno che va per i boschi, ma in un senso del tutto diverso in cui Teo intendeva la parola».

Leggi anche: Ribelli sì, imboscati no: istruzioni per un corretto uso di Ernst Jünger

Qui l’estraneità di Clamor rispetto alla società e al mondo che lo circonda si capovolge: da emarginato a ribelle, dalla negazione all’affermazione, dalla materia allo spirito. In questo senso si potrebbe leggere la condizione di orfano di Clamor come una mancanza più profonda. È il venir meno e insieme la ricerca di quello spazio sacro e autentico per il Waldgänger, è il bosco come segno dell’intemporale. Invece, per Teo, il bosco – come sono nel romanzo i giardini di Unger – è solamente uno spazio altro, proibito e minaccioso, un riparo per i fuorilegge.

Una martora che mi rosicchia il cuore

Se Clamor incarna il figlio – tanto che il romanzo, per certi versi, ruota intorno alla sua ricerca di una figura paterna – Teo è il parricida. Suo padre è il…

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