Roma, 26 nov – Derubricata dalla storiografia moderna come conflitto minore, la guerra italo-turca ha avuto al contrario ripercussioni decisamente importanti. Innanzitutto sul piano geopolitico internazionale, risvegliando i nazionalismi balcanici. Internamente fu invece l’occasione – che piaccia o meno, in questo senso le faccende militari hanno spesso “anticipato” il vivere in tempo di pace – per utilizzare direttamente sul campo nuove tecnologie: aeroplani, automobili, la radio su larga scala. Ma non solo, perché agli inizi della campagna di Libia – esattamente 113 anni fa, era il 26 novembre 1911 – Giovanni Pascoli al “Teatro dei Differenti” di Barga pronunciava, a favore dell’intervento, il suo discorso più famoso. “La grande proletaria si è mossa”, l’introduzione con la quale oggi conosciamo l’arringa del poeta romagnolo.
Il monologo del poeta
“La grande proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre le Alpi e oltre mare” attacca Pascoli mettendo subito al centro il problema del lavoro. Connazionali la cui vocazione è quella di “aprire vie nell’inaccessibile, costruire città, dove era la selva vergine, piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto”.
Dal primo dovere sociale a una superiore missione il passo è breve: “Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’aumento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volonterosi quel che sol vogliono, lavoro”. Una “terza Era” che non sarà da meno rispetto alle “sue due Istorie”, la Roma dei Cesari e quella dei Papi. Una visione futura “possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare, per terra e per cielo”.
La grande proletaria come “sintesi” pascoliana
Così dopo aver ampiamente descritto le “moderne invenzioni e scoperte” utilizzate nel conflitto, in seguito al lungo parallelismo con le imprese romane, Pascoli si concentra sugli eroi di appena vent’anni che “sotto i rovesci d’acqua, sotto le piogge di fuoco” cantano una “gaia canzone d’amore e di ventura” che – nella cruda brutalità della guerra – spesso si trasforma in inno funebre. Ma chi sono questi eroi? “Proletari, lavoratori, contadini. Il popolo che l’Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al suo invito, al suo comando”. Passaggi non così casuali se pensiamo che negli stessi giorni un conterraneo di Pascoli – tale Benito Mussolini – veniva condannato a un anno di reclusione per posizioni nettamente contrarie alla guerra contro l’impero ottomano.
In cinquant’anni un paese che “non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sé, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire” aveva quindi intrapreso la strada per rifoggiare “saldamente, duramente, il suo destino”. Anticipando le tempeste d’acciaio del primo conflitto mondiale “il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri, gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e di Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari”.
“Né là esistono classi né qua”
Fatta l’Italia bisognava rifare gli italiani. Ecco il germoglio di un popolo che gomito a gomito “lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca”. Perché “né là esistono classi né qua” in quanto – come ogni cosa che manchi di forma – “ciò che perennemente e continuamente si muta, non è”. La lotta di classe, senza una forza centripeta più alta, era già destinata ad autofagocitarsi nel conflitto “contro sé stessa”.
Cosa rimane quindi del discorso di Pascoli? Nazione e socialismo sintetizzati in un’ottica ordinatrice e imperiale. Ora, non è il monologo ad aver cambiato il corso degli eventi, è vero. Legatissimo al mondo rustico e bucolico della campagna italiana crediamo però che con queste parole il letterato sammaurese abbia gettato un seme. Trovando poi terreno fertile in quell’Italia lavoratrice fattasi definitivamente popolo nelle trincee del Carso e diventata credibile soggetto politico con la Rivoluzione delle camicie nere. Un’esperienza sociale ed economica che, almeno nel nostro paese, influenzerà anche tutta la ripresa del secondo dopoguerra. Idee che diventano azioni, le chiamava Ezra Pound. Ma nulla può fiorire nel tempo dell’aridità culturale: oltre che di una classe politica, oggi abbiamo bisogno di nuovi poeti.
Cesare Ordelaffi