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Quando la retorica «no border» finisce per falsificare la storia: il caso del Medioevo

by Tommaso Indelli
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Ci risiamo. Certe opinioni pervasive veicolate, nell’opinione pubblica, da una storiografia impegnata a negare il passato, per piegarlo alle esigenze del presente, naufragano miseramente davanti all’evidenza scientifica offerta dalle fonti storiche. Mi riferisco all’idea – diffusa non solo dai libri, ma anche dai mass media – di un Medioevo perennemente mobile, in cui singoli e gruppi umani si spostavano da un luogo all’altro per le più diverse finalità – politiche, diplomatiche, religiose, economiche – senza incontrare alcuna forma di ostacolo sul loro cammino, costituito da barriere e confini (P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano 1997).

Questo articolo è stato pubblicato sul PrimatNazionale di gennaio 2022

Scienza e ideologia

Secondo questa vulgata destituita di ogni fondamento scientifico – in piena sintonia con le attuali correnti d’opinione no borders – il Medioevo sarebbe un’epoca da prendere ad esempio: non per ritrovarvi i germi delle future nazioni europee e di una comune identità culturale e religiosa – come avveniva nel passato – quanto per abbattere quel poco di sicurezza sociale e politica ancora esistente in Europa. Secondo certe interpretazioni, infatti, i «confini», le «frontiere» – come le intendiamo oggi – non sarebbero un’eredità del Medioevo, ma il prodotto della modernità che vide affermarsi, sotto il profilo filosofico e giuridico, il concetto di Stato come soggetto internazionale e sintesi indissolubile di sovranità, nazione e territorio (M. Fioravanti, Stato: dottrine generali e storiografia, in Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Torino 1993).

E, tuttavia, l’esigenza di marcare lo spazio e il territorio, circoscrivendo un’area entro la quale un gruppo umano, con specifici requisiti identitari, possa vivere stabilmente e in prosperità, escludendone tutti gli altri – se non nel rispetto di specifiche condizioni – sembra una costante ineliminabile della «civiltà umana» riscontrabile, seppure con declinazioni diverse, in ogni tempo e in ogni luogo, quindi anche nel Medioevo, com’è dimostrato dall’analisi puntuale delle fonti scritte e archeologiche. Ovviamente, rispetto alle epoche successive, le cose nel Medioevo andavano un po’ diversamente, perché l’idea del «confine» quale linea divisoria segnata da elementi artificiali – città, fortezze, barriere – o naturali – monti, laghi, fiumi – nacque solo in età moderna, prima con lo Stato assoluto, poi con quello costituzionale.

Medioevo e modernità

La formazione di confini lineari – artificiali o naturali – è, infatti, il prodotto dell’idea di nazione, cioè l’esito di quel lungo processo – iniziato nel basso Medioevo e conclusosi nel XIX secolo, in parte promosso e avallato dalle élite dirigenti – di progressiva uniformazione culturale e linguistica delle popolazioni residenti all’interno di un territorio. Cosa non proponibile per l’età medievale in cui gli Stati, oltre che istituzionalmente frammentati al loro interno in signorie, città e borghi, erano anche multietnici, benché tali etnie fossero, nella maggior parte dei casi, culturalmente e razzialmente affini, condividendo il medesimo retaggio indoeuropeo. Lo sviluppo dell’idea lineare di confine va intesa anche come l’esito del processo secolare di centralizzazione amministrativa che, all’alba dell’Ottocento, condusse all’esautorazione di giurisdizioni e poteri concorrenti con quelli dello Stato e lo sviluppo delle scienze geografica e cartografica; discipline, queste ultime, imprescindibili per la conoscenza della morfologia di un territorio (C. Raffestin, Per una geografia del potere, Milano 1983).

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A prescindere da queste verità indiscutibili, anche nel Medioevo è accertata – come l’archeologia ha avuto modo di dimostrare – l’esistenza in alcuni casi di confini lineari. Si pensi al Danevirke, una barriera artificiale consistente in fossati, palizzate e mura a secco, realizzata tra VIII e XII secolo e lunga circa 17 km: andava dal Baltico al Mare del Nord e aveva la funzione di proteggere il regno di Danimarca da incursioni provenienti dalla Sassonia (J. Brondsted, I Vichinghi, Torino 2001). Un muro del genere, oggi, farebbe di certo inorridire l’Unione europea. Si pensi poi, in Italia, al Tractus Italiae circa Alpes, struttura di difesa confinaria che con torri, castelli e sbarramenti in legno e muratura, collocati allo sbocco delle strade transalpine, proteggeva la Penisola, lungo l’intero arco alpino, da potenziali invasioni. Costruito in epoca romana (IV-V secolo d.C.), il Tractus fu «ereditato» dalle stirpi germaniche – Longobardi e Franchi – che occuparono la Penisola e se ne servirono, poi, anche per fini fiscali, cioè per controllare il flusso di merci in entrata e in uscita.

A difesa della torre

Caduto l’Impero romano d’Occidente nel V secolo d.C., le stirpi germaniche, dopo aver fondato i regni romano-barbarici, ne ereditarono l’organizzazione amministrativa e, con essa, la tradizione culturale e giuridica, atteggiandosi a difensori di quelle frontiere – il limes – che esse stesse, molto tempo prima, avevano impunemente violato, determinando il tracollo di Roma (G. De Angelis, Mobilità e controllo politico nell’Italia longobarda e carolingia, in Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge, 132/2,Roma 2020). Talvolta era un intero territorio, costellato da fortificazioni, ad essere adibito a «marca di confine». Come l’Ostmark – «marca orientale» – corrispondente alle attuali Austria, Slovenia e Croazia: fu istituita da Carlo Magno nel 796, all’indomani della vittoria sugli Avari, come «antemurale» contro potenziali incursioni di stirpi slave e asiatiche nell’impero franco. Oppure si pensi alla…

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