Roma, 5 dic – Questa è la storia di un dono reciproco. Che ricorre nei secoli, che va indietro fin nei millenni. Che traccia la cronaca d’un legame imperituro, il solo possibile e l’unico proficuo, per la geometria degli incastri e per le regole di natura. Nella storia umana, scoprire il sistema circolatorio fu cosa abbastanza recente, e la dobbiamo agli studi dell’inglese Harvey in epoca moderna. Però, l’esistenza della piccola vena che connetteva il cuore a un dito della mano sinistra, già la ipotizzavano gli Egizi. Presso di loro si iniziò a forgiare anelli col proposito di sugellare l’unità della coppia, indossandoli invece dei bracciali, eredità di un’epoca antidiluviana e di una cultura tribale. L’anello si prestava ottimamente all’atto simbolico dell’unione, con la sua forma a richiamare l’Uroboro, drago che si mangia la coda creando un cerchio senza fine né inizio: sinonimo di eternità nella tomba di Tutankhamon, allegoria per gli alchimisti medievali, emblema per i frammassoni. Appena Alessandro il Macedone si prese con un colpo di mano la terra dei faraoni, l’anello così inteso fece ingresso nel mondo classico. I greci ne realizzarono uno di tipo intrecciato detto “nodo di Eracle”. Ed anche ai romani piacque il suo impiego. Ricorreva sia nella cintura della sposa, da sciogliere al momento della prima notte, sia in quella fede nuziale da indossare al “dito vicino al mignolo della mano sinistra” – come riporta Giovenale.
Anello fortunato
Congiunto alle profondità del sentimento dalla vena amoris di cui sopra, questo dito era altresì detto digitus medicinalis, e usato dai nostri antenati per mescolare miscele curative. Si era infatti convinti che il cuore avrebbe sussultato immediatamente qualora, nella pozione, vi fosse stato qualcosa di dannoso per la salute. “Anello fortunato, sarai toccato dalla mia donna: meschino me, son già invidioso del mio regalo. Magari potessi d’un tratto identificarmi col mio dono, con la magia di Circe o del vecchio Proteo!” – scriveva Ovidio. “Allora, spinto dal desiderio di palparle il seno e di insinuarle la mano sinistra sotto la tunica, benché stretto e aderente, scivolerò via dal dito e allargandomi con abilità straordinaria le cadrò nella scollatura”.
In principio portato unicamente dall’uomo, in ferro secondo il rigoroso minimalismo del mos maiorum, l’anello non impiegò molto ad essere inglobato nell’universo femminile. Rinomata la passione delle romane per i gioielli, che si abituavano ad indossare sin da molto piccole, nei metalli più adeguati al loro censo, e che, per le matrone, andavano ad adornare ogni parte esposta del corpo: dita dei piedi, dita delle mani, polsi, avambracci. Gli anelli d’amore potevano veder raffigurati Marte, Venere, Cupido, o incise una figura maschile ed una femminile, oppure anche il motivo di una nave, corrispettivo della felicità. Il più apprezzato, però, consisteva nel riadattamento romano al nodo di Eracle greco, con un paio di mani unite in una stretta. Si richiamava così la dextrarum iunction, atto clou di una cerimonia di matrimonio che iniziava con la promessa ratificata a tavolino, e si concludeva con la sostituzione dell’anello di fidanzamento (anulus pronubus) in quello nuziale (vinculum).
Proprio ad una nave, proprio ad un uomo e una donna riconduce quel gioiello uscito dal Mar d’Irlanda sul finire dei ’60 del secolo passato. Le storie popolari della regione di Antrim, sul versante nord-orientale dell’Isola verde, da secoli narravano di una vascello spagnolo affondato poco a largo della costa, il cui immane carico di morti avrebbe per giorni occupato la risacca sulla spiaggia. Cosa insolita che una vela spagnola si spingesse a certe latitudini, motivo per cui si era sempre scelto di relegare la memoria della tragedia al rango di leggenda. Finché non giunse a visitare quei luoghi un giornalista e archeologo subacqueo, Robert Sténuit del Gruppo di Ricerca Archeologica Sottomarina Postmedievale. Mentre svolgeva ricerche su mappe del Regno Unito, Sténuit si imbatté nella denominazione di “Spaniard rock” e “Port na Spaniagh”, estremi lembi di terraferma presso cui non tardò a scoprire che i locali riferivano di “spanish bones”, lì seppellite, da qualche parte.
Girona ring
La cosa lo intrigò, non meno di quanto avveniva, cinematograficamente, per i Goonies con il tesoro di Willy l’Orbo. Primo uomo ad aggiudicarsi l’appellativo di “acquanauta”, dopo l’impresa di 24 ore trascorse dentro un cilindro in fondo al mare, il Cousteau di Bruxelles s’immerse con un team tutto belga a largo del Canale del Nord, fra il 1967 e il 1968. Fiuto ed esperienza di questo pioniere non fecero un buco nell’acqua – perdonate il facile gioco di parole. Fu così rinvenuto un relitto che portava nello scafo un quantitativo di oro, argento, cannoni, armature, spade, gioielli, dobloni, quantificabile per 132.000 sterline. Si ricostruì che la nave era la Girona, galeazza uscita dai cantieri di Napoli e salpata con le 138 unità dell’Armada Invencible, per la spedizione di Filippo II di Spagna contro Elisabetta I d’Inghilterra. Una guerra, quella fra le due superpotenze nell’anno 1588, che nasceva tanto dall’ambizione di entrambe per l’egemonia dei mari, quanto dallo scisma fra protestanti e Roma, matrice di odio per i successivi cento anni e più. Impedita, per l’astuta strategia inglese, ad unirsi col contingente che sopraggiungeva dai Paesi Bassi, la flotta spagnola fu falcidiata a Calais, presso la costa teatro di un altro epocale scontro come lo sbarco in Normania della Seconda Guerra Mondiale. Le navi superstiti, fra cui la Girona, furono costrette alla ritirata ma, a causa dei venti contrari, forzate a prendere il tragitto più lungo verso casa, circumnavigando le isole britanniche: dell’intera spedizione, soltanto uno spagnolo su due avrebbe fatto ritorno. Sotto il capitano Guido di Moncada, vicerè di Napoli e cavaliere dell’Ordine di Malta, la Girona trasportava 500 uomini, in prevalenza nobili ed ufficiali del re. La situazione di emergenza aveva fatto poi imbarcare al Moncada 800 altri connazionali, scampati alle tempeste della Manica e agli agguati inglesi. Appesantita, sovraffollata, la notte del 26 ottobre la Girona fu spinta da una tempesta sugli scogli, dove si schiantò per disgrazia del suo carico di vite e di ricchezze. Il capoclan di una famiglia aristocratica del luogo, tale MacDonnell del castello di Dunluce, recuperò gli unici 9 dell’equipaggio che toccarono vivi terraferma, mettendoli in salvo in Scozia, dopo aver intenzionalmente indicato agli inglesi un falso punto del naufragio. Fu lui a dare cristiana sepoltura alle centinaia di soldati spagnoli che la risacca aveva portato a riva, lasciando l’indizio di quanto accaduto nel nome che scelse per la località della tumulazione. Baia di Port na Spaniagh, da quel giorno in poi.
Fra la collezione dei reperti esposti all’Ulster Museum di Belfast grazie al recupero di Robert Sténuit, spicca ciò che viene chiamato “Girona ring”. Interamente in oro, vi è rappresentata una mano nell’atto di stringere un cuore, con un’incisione ben visibile su tutta quanta la circonferenza esterna. Le parole dicono: “NO TENGO MAS QVE DARTE”, ossia “NON HO ALTRO DA DONARTI”. Ricorda l’anello irlandese per eccellenza, il “Claddagh”, che porta tradizionalmente l’effige di un cuore, due mani e una corona. Ma la singolarità della somiglianza può non essere un caso. La storia del Claddagh – termine che in gaelico traduce “sabbia rocciosa” – si rintraccia in svariati racconti popolari, differenti gli uni dagli altri. Secondo uno di questi, sarebbe nato dal desiderio d’un re innamorato di una contadina, suicida per l’amore non corrisposto. Secondo un altro, sarebbe caduto in grembo ad una gentildonna vedova, trasportato da un’aquila che glielo donava a ricordo del marito. Secondo un altro ancora, sarebbe opera di un mercante fatto schiavo dagli arabi, presso cui imparò l’arte di lavorare i metalli. Gli si attribuisce la simbologia del trifoglio nazionale ovverosia della Trinità, con la corona a rappresentare il Padre, la mano sinistra il Figlio e la destra lo Spirito Santo, il cuore l’umanità. Ma l’interpretazione più comune è quella che recitano i versi: “The hands are there for friendship, the heart is there for love. For loyalty throughout the years, the crown is raisen above” – “Le mani stan lì per l’amicizia, il cuore sta lì per l’amore. Per la fedeltà lungo gli anni, la corona vi è sopra”.
Pegno senza tempo
Tuttoggi popolare, portarlo deve rispondere a regole precise le quali, a seconda che s’indossi alla mano sinistra o alla destra, con la punta verso le dita oppure verso il polso, stanno ad indicare lo status della persona che se ne fregia (libera, innamorata, fidanzata, sposata). Però, come si spiega che l’anello spagnolo fu ripescato nell’anno 1967/68 mentre quello irlandese è storicamente accertato dal secolo XVII? Si era sempre ritenuto che il Claddagh fosse creazione esclusiva dell’artigianato made in Ireland, ma forse è il momento di ricollocarne l’origine. Che possa discendere per via diretta dal tipo di anello romano, perpetuatosi, attraverso il Medioevo, fino al Rinascimento? Be’, sì. Se infatti i membri dell’Armada avevano su di loro questi monili, e se le correnti oceaniche li trasportarono dopo il naufragio, l’arte orafa isolana poté prenderne ispirazione per il suo più iconico gioiello. Pegno senza tempo per uomini e donne, attraverso i flutti della Storia.
Alessandro Staderini Busà
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