Roma, 3 feb – Dall’onda lunga della crisi americana del 2008 alle recenti guerre sui fronti orientali, sono diversi gli avvenimenti internazionali che negli ultimi 15 anni hanno avuto serie ripercussioni sulla nostra economia. Il mancato superamento delle gravi turbative dovute ai tristemente famosi mutui ad alto rischio d’oltreoceano ci ha condotto – almeno fino al 2015 – a un’importante recessione. Depressione parzialmente ammorbidita dalla piccola ripresa conclusasi nel 2018 e seguita dalla stagnazione del 2019. L’arrivo del Covid-19 avrebbe quindi potuto dare il colpo di grazia a tutto il sistema Italia. Condizionale d’obbligo perché secondo un recente studio della Cgia di Mestre dal 2020 in avanti “nessun’altra grande manifattura europea ha fatto meglio della nostra”. Tre lustri d’altalena per il nostro settore secondario, cerchiamo quindi di tastare il polso all’industria italiana.
L’unico combustibile idoneo
Ma perché concentrarsi proprio sul manifatturiero? Ce lo spiega magistralmente Filippo Burla nel suo Tornare Potenza (Altaforte Edizioni): lungi dall’essere un qualcosa di obsoleto, “è l’industria che crea la vera ricchezza…genera un indotto…l’unico combustibile idoneo a far ripartire la macchina della crescita”. Poi, citando Faye, perché “è la produzione che fa la moneta e non l’inverso”. Anche nell’era del virtuale. Un settore votato alle esportazioni che incide nella composizione del Pil per un 20% (dati 2021, a cui vanno aggiunti altri 5 punti percentuali propri delle costruzioni), occupando in totale quasi un quarto dei lavoratori.
Data l’altalena poco sopra descritta, l’industria italiana rimane comunque al secondo posto in Europa per valore aggiunto – dietro alla Germania. Dal 2007 in avanti però quest’ultimo dato è sceso di un 8% abbondante, mentre le statistiche tedesche hanno registrato una variazione positiva del 16%. All’instabilità propria di un mondo globalizzato dobbiamo aggiungere poi i soliti motivi endogeni: mancato coordinamento tra politiche fiscali e monetaria, ricerca ossessiva della stabilità dei prezzi, contenimento castrante della spesa pubblica, carenze infrastrutturali. Tendenze globali e disattenzioni locali, con tanti ringraziamenti ai fanatici del libero mercato.
E poco importa che questi fattori siano da imputare all’Unione Europea piuttosto che ai nostri governi. Entrambe le classi dirigenti – da sinistra a destra, e viceversa – hanno ampiamente dimostrato di parlare la stessa lingua. Semplicemente, hanno sempre perseverato sulla medesima linea d’azione.
L’altalena dell’industria italiana: crolla il Sud, regge il Nord-Est
Tornando all’analisi dell’associazione mestrina, nello specifico si sottolinea l’andamento negativo di petrolio, chimica, legno ed apparecchiature elettriche. Decisamente meglio l’alimentare (punto di forza qualitativo della produzione nostrana) e il farmaceutico. Ottimi risultati per il comparto estrattivo. Sempre in termini di valore aggiunto industriale, nel quindicennio preso in considerazione l’unica macroarea cresciuta è il Nord-Est. Bene quindi Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Veneto. Ossia le regioni maggiormente interconnesse con l’economia tedesca.
Al contrario crollo del 27% per il meridione: nel Mezzogiorno il Pil ha fatto registrare un meno 13%. Tra le città Milano, Torino e Roma confermano lo spostamento di capitale e risorse umane verso le grandi aree metropolitane. Fenomeno che dall’altro lato della medaglia svuota problematicamente le zone più periferiche (in senso lato) del nostro paese: dorsale appenninica, isole mediterranee.
L’altalena, o meglio, il decennio abbondante di forzate cure dimagranti, ha fortemente debilitato l’industria italiana. La quale però, passata l’emergenza pandemica, sta dando segnali di risveglio. L’esigenza adesso è quella di agire su più direttrici: snellire la burocrazia, abbassare il carico fiscale sugli imprenditori, stimolare la domanda interna, irrobustire gli scambi con i nostri vicini (Francia e Germania in particolar modo), tornare protagonisti nel bacino del Mediterraneo. Secondi in Europa e settimi nel mondo, rimaniamo nel ristretto cerchio delle nazioni più industrializzate. Un primato che sarebbe bene difendere. Anzi, migliorare.
Marco Battistini