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Guerra delle valute: chi vince (Cina e Russia) e chi perde (Arabia Saudita)

by Francesco Meneguzzo
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Indice Bloomberg delle commodity (BCOM)


Riyad, 24 ago – Il deprezzamento dello yuan cinese a metà agosto, in pratica l’abbandono dell’aggancio al dollaro statunitense, ha innescato un’ondata di mosse simili da parte di altri paesi, nel tentativo di tenere il passo con l’aumento della competitività cinese nelle esportazioni, e conseguentemente la caduta dei valori di numerose valute nazionali.
In tre giorni consecutivi la scorsa settimana, la banca centrale cinese ha svalutato la moneta nazionale, in totale del 4,4%. Questo passo, intenso appunto a rivitalizzare l’export, ha causato un effetto domino portando al panico e alle fluttuazioni nei mercati azionari in tutto il mondo, interpretati anche come alcuni dei segnali dell’inizio di una nuova fase recessiva globale.
La raffica di svalutazioni monetarie, oltre che contribuire alla contrazione degli scambi commerciali a causa dell’aumento dei costi delle importazioni, si è sommata per i paesi produttori di materie prime, sia energetiche che minerali, ai problemi connessi alla caduta dei prezzi delle commodity più importanti, a partire dal petrolio, nonché – per i paesi più piccoli – alla pressione commerciale delle nazioni vicine più grandi.
È notizia di queste ore che l’indice Bloomberg delle commodity (BCOM) è sceso al livello più basso dal 1999, mentre le tariffe di noleggio dei container per il trasporto di merci dall’Asia all’Europa è crollato del 60% in tre settimane, fino a livelli difficilmente redditizi anche per le grandi compagnie di trasporto marittimo via container come la Maersk.
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Crollo della divisa del Kazakhstan


Il caso peggiore è quello del Kazakhstan, il più grande esportatore di petrolio dell’Asia centrale, alle prese sia con il crollo del prezzo del petrolio sia con la debolezza economica dei suoi maggiori partner commerciali, Cina e Russia. La valuta di Astana, il tenge, ha perso il 23% giovedì scorso dopo che il presidente a vita Nursultan Nazarbayev ha deciso di consentire la libera oscillazione del cambio.
In generale, nubi minacciose si addensano sulle finanze dei paesi asiatici più esposti alla dipendenza dalle economie maggiori, cioè quelle cinese, russa e kazaka. Tra questi, spiccano il Kyrgyzstan, il Tajikistan, il Turkmenistan e l’Armenia, con quest’ultima che ha visto già un deprezzamento della propria moneta del 15%. Anche la Bielorussia non si trova in migliori condizioni, la sua divisa avendo perso il 27% in un anno.
Una tigre asiatica emergente, il Vietnam, vero paradiso comunista del lavoro sottopagato, ha svalutato il suo dong per la terza volta quest’anno dell’1% sul dollaro mercoledì scorso, annunciando ulteriori deprezzamenti fino almeno ai primi mesi del 2016.
Il ringgit della Malesia è caduto al minimo da 17 anni giovedì scorso, e le riserve valutarie in divise straniere sono calate sotto i 100 miliardi di dollari per la prima volta in cinque anni.
Più vicino a noi, la Lira turca ha subito una delle peggiori performance nel mondo, perdendo oltre il 5% in seguito alla svalutazione cinese, ma il 9% in un mese e oltre il 25% in un anno, anche a causa delle instabilità politiche.
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Bilancio petrolifero e demografico dell’Arabia Saudita: la produzione sale a fatica, le esportazioni stagnano, mentre aumenta rapidamente la popolazione e i consumi interni


La banca centrale dell’Arabia Saudita ha già speso 65 miliardi di dollari dalle sue riserve per preservare il valore del riyal sotto la pressione del calo del prezzo del petrolio e nonostante questo Bloomberg prevede una diminuzione di circa l’1% della divisa di Riyad entro il prossimo anno.
L’accelerazione dello sganciamento dal dollaro americano, tutt’altro che indolore come si vede, potrebbe in realtà essere stata favorita proprio dalla nota mossa saudita di sostenere a tutti i costi l’estrazione di greggio, finalizzata a mantenere le proprie quote di mercato, un’operazione che prevedeva per prima cosa l’annientamento dell’industria del petrolio di scisto statunitense.
L’obiettivo appare solo parzialmente raggiunto – in effetti le attività dell’industria estrattiva Usa si sono pesantemente ridimensionate, a metà marzo la produzione è divenuta stagnante e successivamente ha iniziato un declino abbastanza sostenuto – ma l’accesso al credito a bassissimo prezzo ha per il momento evitato il bagno di sangue.
A che prezzo, però? La situazione è ben diversa da quella del 1998, quando a fronte di prezzi del petrolio particolarmente bassi i costi di estrazione dai mega-giacimenti sauditi erano ancora molto contenuti (l’aumento è stato costante e sostenuto da allora), la popolazione contava 20 milioni di persone – oggi sono 30 milioni – e le spese pubbliche erano cinque volte inferiori rispetto a oggi. Ma la dipendenza delle entrate fiscali dal petrolio non è mutata, pari a circa l’80% del totale, non esistendo in pratica una tassazione sulle persone fisiche.
Secondo Bloomberg, gli economisti prevedono un deficit di bilancio pari al 20% del prodotto interno lordo e il Fondo monetario internazionale un il primo deficit commerciale in più di un decennio. Le riserve della banca centrale sono diminuite del 10% da un anno fa, cioè oltre 70 miliardi di dollari.
L’indice azionario della borsa saudita ha perso il 18% negli scorsi tre mesi, trascinando con se’ le altre borse della regione del Golfo.
La combinazione di tutti questi fattori potrebbe essere tale da costringere la monarchia saudita a invertire per la prima volta il trend del benessere estremo dei propri sudditi, rinunciando a garantire l’occupazione pubblica per tutti gli esclusi dalle occupazioni private, a fornire la benzina a 16 centesimi al litro e a evitare qualsiasi tassa personale (finora esistendo solo un contributo a fini religiosi).
Il governo saudita non può continuare a essere il datore di lavoro di ultima istanza, né a pilotare la crescita economica per mezzo di giganteschi progetti infrastrutturali, così come non può ulteriormente sperperare risorse in sussidi e spesa sociale”, sostiene Farouk Soussa, capo economista per il medio Oriente della londinese Citigroup Inc.
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Esportazioni di petrolio alla Cina: diminuiscono quelle saudite, aumentano quelle russe, fino al primo sorpasso di quest’anno


Una tale inversione di tendenza, che potrebbe apparire ovvia a opinioni pubbliche abituate da anni a raffiche di misure di austerità, dalle parti di Riyad minaccia invece di saldarsi con le mai sopite tensioni etniche e religiose e gli intrighi in seno alla famiglia regnante, fino a mettere a serio rischio la stabilità della stessa monarchia: “Queste sono cose assolutamente esplosive sul piano politico. La gente lì [in Arabia Saudita] è abituata a un certo stile di vita di super-lusso che è molto superiore a quello vigente nel 1998”, chiosa Soussa.
C’è di più: l’ostinazione saudita nel mantenimento delle più elevate quote di produzione del greggio, avendo probabilmente innescato tutta la serie di conseguenze descritte, ha di fatto indebolito pesantemente il sistema basato sul “petrodollaro”, base fondante di tutte le economie dei paesi esportatori. Lo sganciamento della Cina ne è la prova più eclatante, insieme al crollo degli scambi commerciali.
Ironicamente, poiché comunque l’Arabia Saudita continua a vendere petrolio soltanto in dollari, mentre altri Paesi nel mondo, come la Russia, ma anche Iraq e Angola, hanno deciso di accettare lo yuan come divisa di scambio, la competizione per il maggior mercato di petrolio del mondo, appunto quello cinese, si fa stringente per la monarchia dei Saud. “Con la svalutazione dello yuan, le importazioni cinese di petrolio dalla Russia beneficiano del fatto che questo paese ha iniziato ad accettare pagamenti in yuan fin dall’anno scorso”, sostengono gli analisti di Barclays in una nota. Tanto che Mosca ha soppiantato Riyad quest’anno, per la prima volta, come primo fornitore di petrolio a Pechino.
Francesco Meneguzzo

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