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Pirelli compie 150 anni: una storia italiana (che parla cinese)

by Filippo Burla
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Pirelli, sede

Roma, 29 gen – 150 anni di Pirelli. 150 anni di storia, di innovazione, di cultura industriale tricolore. Riassunti in quella “P” del celebre logo, uno dei (tanti) tratti iconici del made in Italy, conosciuto e ri-conosciuto ovunque nel mondo. Tutto nel nome della… gomma.

Pirelli, una gloriosa storia italiana

Era la fine di gennaio del 1872 quando, a Milano, l’ingegner Giovanni Battista Pirelli diede vita alla prima fabbrica per la lavorazione del caucciù. La sede si trovava in via Fabio Filzi, a pochi passi dalla (allora non esistente) stazione centrale, dove sarebbe poi sorto il Grattacielo Pirelli. Gli usi del lattice vegetale erano i più variegati possibili, ma serviranno però una ventina d’anni perché l’azienda intuisca le ulteriori potenzialità del prodotto. A partire dagli pneumatici, inizialmente per biciclette e poi per moto e automobili. Senza dimenticare i cavi sottomarini – Prysmian group, leader mondiale nei cavi in fibra ottica, nasce come Pirelli cavi e sistemi – le impermeabilizzazioni, persino giocattoli e reggiseni.

La crescita è costante, a tratti tumultuosa. Nel 1922 – ricorre quindi, sempre quest’anno, il centenario – Pirelli sbarca in borsa. Nel frattempo aveva già avviato la sua espansione a livello internazionale ed iniziato collaborazioni proficue (e di successo) nel campo degli sport motoristici. Due caratteristiche, queste ultime, che contraddistinguono ancora oggi la società, presente con siti produttivi in 12 nazioni e fornitore unico per la Formula 1. Ci sono le innovazioni di prodotto, di processo e finanche culturali. Il celebre pneumatico “cinturato” è figlio del periodo del boom economico, nel corso del quale (siamo nel 1964) prende vita anche il famosissimo Calendario.

Nelle mani della Cina

Nei suoi 150 anni di storia Pirelli supera due guerre mondiali, crisi petrolifere e stravolgimenti politici e sociali continuando a crescere, diversificare, innovare. E mantenendo saldamente in mani italiane le quote dell’azienda. Almeno fino all’ingresso nell’euro e nel periodo di stagnazione secolare in cui ci ha fatto piombare la moneta unica. Vittima sacrificale per eccellenza, in nome del paradigma a tratti religioso dell’austerità, è stata la domanda interna. Con essa la produzione industriale e la malcelata intenzione di accettare, per la nostra nazione, un ruolo da comprimario. Mantenendo (forse) qualche eccellenza manifatturiera, a patto che non parli più la lingua che fu di Dante, Foscolo e D’Annunzio.

E’ successo di recente con Fiat. Era già accaduto, non troppo in anticipo sui tempi, a Pirelli. Correva l’anno 2015 quando la Camfin della famiglia Tronchetti Provera passava la mano al gruppe ChemChina, che attualmente detiene la maggioranza relativa con il 45% delle azioni. “La potenza è nulla senza controllo”, recitava un fortunato slogan degli anni 90: per l’appunto, oggi il controllo è in mani straniere.

Filippo Burla

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