Stando alla concezione delle cosiddette «catene globali del valore», approccio con il quale si è cercato di dare una veste teorica alle dinamiche di mondializzazione dell’economia, la perdita di parti anche rilevanti della nostra industria era da considerarsi quasi una necessità. L’idea di fondo era quella di delegare alle nazioni emergenti le parti più standardizzate dei processi produttivi, consentendo così alle imprese dei Paesi già sviluppati un vantaggio competitivo dovuto alla possibilità di concentrarsi sulle fasi a maggior valore aggiunto. Il cambio di paradigma veniva insomma presentato come un gioco in cui tutti vincevano. Dimenticando, o fingendo di dimenticarsi, che dalla logica della partita doppia non si scappa: se c’è un debito, c’è anche un credito; se c’è un ricavo, c’è anche una spesa, e non è dato che le parti coinvolte in una transazione possano, specie sul medio-lungo periodo, entrambe registrare un profitto.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di febbraio 2023
Lo stato boccheggiante del secondario tricolore è lì a dimostrarlo: un tondo -20% di produzione industriale dall’ingresso nell’euro ad oggi, con la moneta unica a rappresentare il proverbiale chiodo sulla bara. «Che problema c’è?», si chiede il globaliota medio, «possiamo sempre focalizzarci su quei settori ancora trainanti e che garantiscono ampi margini». Gli esempi sono bell’e pronti: moda, design, lusso e tutto il comparto che ricade nell’ambito del cosiddetto «stile di vita italiano». Ineguagliabile al mondo, su questo siamo tutti d’accordo. Peccato che di italiano abbia ormai ben poco, al di là del logo e di soggetti che ancora (per quanto?) rimangono attivi sul nostro territorio. Per il resto, parlano una babele di lingue diverse. Francese, soprattutto. L’ultima cessione in ordine di tempo è stata quella di Pedemonte, gruppo nato pochi anni fa dalla fusione di alcuni laboratori dell’alessandrino, storica terra di orafi e gioiellieri. Neanche a dirlo, l’acquirente è il gruppo transalpino Lvmh, vero e proprio dominus a livello globale: con oltre 60 miliardi di fatturato stacca nettamente il suo principale concorrente, anch’egli battente bandiera francese, che si ferma poco sotto i 20.
Le mani francesi sulla moda italiana
I due si sono spartiti l’Italia: Acqua di Parma, Bottega Veneta, Brioni, Bulgari, Fendi, Gucci, Loro Piana, Pomellato e Ginori 1735 sono solo alcune delle realtà finite nel corso degli anni sotto il loro controllo. Parigi, d’altronde, la fa da padrone un po’ ovunque: negli ultimi due decenni i nostri «cugini» hanno…
1 commento
Parigi la fa di padrone? E dietro “Parigi” il Lobby mondiale globalista degli usurai di Wall Street con governo centrale (globale) a Tel Aviv.