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L’attivista arabo “moderato” che divenne attentatore suicida dell’Isis

by Mattia Pase
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3piazza-468x314Il Cairo, 16 apr – I manifestanti di Piazza Tahrir, al Cairo, sono stati per i primi mesi del 2011 sulle prime pagine di tutti i media del pianeta. Era l’inizio della cosiddetta primavera araba, la grande rivolta di piazza che, in Egitto, portò alla caduta del trentennale regime di Hosni Mubarak. Non erano molti, in quei tempi, a ravvisare nelle manifestazioni apparentemente democratiche una minaccia ben più grande di quella rappresentata dai dittatori che si proponevano di abbattere. Com’è andata la storia, si sa. La caduta di Mubarak, l’arrivo al potere di Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani, la conseguente reazione delle Forze Armate egiziane e l’insediamento al potere del Generale Al Sisi, oggi nell’occhio del ciclone per la vicenda legata alla morte di Giulio Regeni. Le vicende di uno dei leader di quella rivolta, accolta con fanciullesco entusiasmo dall’Occidente, meritano però qualche riga, anche se la stampa italiana (e non solo), evidentemente poco avvezza all’autocritica, ha preferito dedicarsi ad altro.

E’ la storia di Ahmad Darrawi, all’epoca molto più di un semplice manifestante e candidato alle successive elezioni dell’autunno del 2011 da indipendente, con tanto di santino elettorale in cui appariva sorridente sotto lo slogan “dignità e sicurezza”. Nel 2014 si è fatto saltare in aria in uno degli infiniti attentati suicidi dell’Isis in Iraq. Stando a quando ha dichiarato suo fratello, che ha cercato di ricostruire il percorso di un uomo passato dalla lotta per la democrazia alle bandiere del Califfato, dopo una sorta di depressione dovuta al disgusto per il fallimento della rivoluzione, Darrawi si era arruolato in una brigata di miliziani anti Assad, in Siria, arrivando poi a comandarla. Aveva anche girato un video in cui gli uomini del suo gruppo – denominato i “Leoni del Califfato”, e all’epoca appena affiliatosi all’Isis – canticchiavano un inno militare attorno al fuoco. In uno dei messaggi postati su Twitter, con un certo compiacimento sottolineava come fra i suoi commilitoni fossero rappresentate almeno 18 nazionalità diverse. Alla faccia degli sproloqui sulla rivolta del popolo siriano contro il regime di Assad.

Alla fine di questo percorso politico-religioso, condiviso a quanto pare con altri manifestanti di Piazza Tahrir, come si è detto, c’è stato l’attentato suicida in cui Darrawi ha perso la vita, da “leale soldato dello Stato Islamico”. Da un lato sarebbe ingiusto speculare sulle scelte di un singolo, o di alcuni singoli, attribuendo simpatie jihadiste a tutti quelli che nel 2011 scesero in piazza al Cairo e nelle altre capitali arabe. Dall’altro però non è possibile ignorare il fatto che quelle rivolte, pilotate o comunque supportate dall’Occidente, e applaudite dall’opinione pubblica mondiale, hanno aperto una fase di caos politico e ideologico che, come dimostrano i cinque anni di guerra in Siria – uno dei campi di battaglia calpestati da Darrawi – ha gettato il medioriente in una spirale di incontrollabile violenza, che è costata fino ad ora centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Con conseguenze drammatiche che hanno di gran lunga superato i confini del mondo arabo, e che lasceranno ferite profonde che sarà difficile rimarginare.

Mattia Pase

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