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Il latente conflitto fra Kurdistan e Iraq: tutta una questione di petrolio

by La Redazione
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Roma, 25 nov – Dopo che il Kurdistan iracheno ha raggiunto in questi ultimi anni una chiara autonomia politica e militare, al governo curdo sembra mancare solo l’indipendenza economica per costituirsi veramente in quanto Stato. Anche se il PDK del clan Barzani al potere tenta con tutti i mezzi di invertire la tendenza, la provincia rimane in larga parte dipendente dal governo centrale di Bagdad, che vede in questo rapporto di forza il miglior mezzo per conservare la regione all’interno dello Stato federale. Il 25 settembre 2017, Massoud Barzani annunciava la vittoria massiccia del sì, con il 92,73%, al referendum per l’indipendenza organizzato dal governo della provincia del nord dell’Iraq. Risvegliando così le tensioni tra Erbil e Bagdad, e mettendo in subbuglio la diplomazia della regione, lo scrutinio era stato dichiarato illegale dal governo centrale diretto dal Primo Ministro sciita Haïder Al-Abadi. In assenza di un supporto diplomatico occidentale sicuro, i dirigenti curdi hanno dovuto far fronte alla condanna della Turchia e dell’Iran, principali acquirenti del loro petrolio.
Il petrolio al centro del conflitto
Pur non vedendo di buon occhio un’eventuale indipendenza del Kurdistan iracheno, in particolare a causa della forte presenza di minoranze kurde all’interno delle proprie frontiere, sia Teheran sia Ankara hanno approfittato per molti anni del petrolio a basso costo proveniente dai territori governati da Erbil. La costruzione dell’oleodotto tra i giacimenti di petrolio kurdi e il porto turco di Ceyhan, nel 2014, ha permesso la commercializzazione autonoma del petrolio da parte del governo kurdo. Nel 2011, Erbil aveva dato il suo avvallo alla prospezione del sottosuolo da parte di compagnie internazionali come Exxon Mobil, Total, Chevron o Gazprom.
La costituzione del 2005, che ufficializza l’autonomia del Kurdistan, prevede il versamento del 17% del bilancio nazionale al GRK (Governo Regionale del Kurdistan). Un bilancio fondamentale, che permette di far funzionare l’amministrazione, pagare i salari dei dipendenti pubblici e dei combattenti peshmerga. Dal 2014, con l’arrivo dello Stato islamico, dopo la disfatta dell’esercito iracheno, il GRK ha perso questa manna finanziaria e ha trovato una compensazione nello sfruttamento e nell’esportazione del petrolio che si trova nel suolo kurdo. I soldati peshmerga sono riusciti ad avanzare fino ai giacimenti di Kirkouk, ufficialmente nella zona amministrata da Bagdad. Un luogo strategico che ha rappresentato fino al 60% della produzione di petrolio kurdo. Ma c’è un braccio di ferro permanente tra Bagdad ed Erbil, con Bagdad che ritiene che le autorizzazioni di sfruttamento e i guadagni ricavati dal petrolio debbano essere gestiti dal governo centrale, mentre Erbil reclama il diritto di disporre a propria discrezione delle risorse situate su suolo kurdo. La costituzione del 2005 prevedeva la promulgazione di una legge che precisasse le prerogative di ciascuna delle parti sugli idrocarburi. I dissensi politici ne hanno impedito fino ad oggi la promulgazione, dando luogo a una indeterminazione giuridica importante, che ha permesso al GRK di esportare più di 600mila barili al giorno, soprattutto in Turchia. In realtà, Erbil e Bagdad sono consapevoli della posta in gioco primordiale rappresentata dal petrolio, in quanto principale fonte di entrate del Kurdistan. Permettere al Kurdistan di sfruttare e guadagnare dal petrolio significa favorirne l’autonomia finanziaria, ultima tappa prima dell’indipendenza. Così, da più di un decennio, Erbil cerca di acquisire questa autonomia, mentre il governo centrale cerca di limitarla.
La rivendicazione prioritaria di autonomia economica
Il GRK ha adottato dunque numerose misure e, in primo luogo, come si è visto, ha preso la decisione di sfruttare il sottosuolo senza attendere l’avvallo di Bagdad, e senza versare i guadagni ricavati dalle esportazioni. Per contrastare queste decisioni, Bagdad ha preso l’abitudine di sottrarre quella che stima essere la quota delle esportazioni di petrolio dal bilancio allocato al GRK. Al fine di attrarre i gruppi stranieri, i PSC (Production Sharing Contracts) validi per i giacimenti sfruttati dal 2007 indicizzano la retribuzione delle imprese petrolifere sulla quantità prodotta, a dei tassi più elevati che nel resto del Paese. Come reazione, il governo centrale ha spesso proibito alle imprese che avevano stipulato dei contratti con Erbil di sfruttare i giacimenti di petrolio sotto il controllo d Bagdad. Più in generale, fin dagli anni 2000 il Kurdistan ha cercato di attrarre investimenti, presentando l’immagine di una regione democratica e pacificata, una specie di “seconda Dubai” per le grandi imprese internazionali. Allora erano state attuate diverse misure d’attrattività economica, come l’esenzione fiscale per 10 anni o il rimpatrio degli utili del capitale.
Numerosi gruppi turchi, libanesi o perfino cinesi avevano così investito nei settori bancario, edile o agricolo. Sul fronte francese, possiamo citare Lafarge, primo gruppo straniero della regione nel 2014, l’affiliata Carrefour, che grazie all’intermediazione del gruppo Majid al-Futtaim degli Emirati Arabi Uniti ha costruito i primi centri commerciali (“Family malls”) della regione, o ancora, più simbolicamente, l’apertura di un negozio Lacoste lo scorso maggio. Una politica che produce i suoi frutti nonostante la battuta d’arresto segnata dall’emergere dello Stato Islamico, ma che non basta a diversificare l’economia, ancora troppo dipendente dagli idrocarburi. Anche i diritti doganali sono una fonte di grande conflitto con Bagdad. Il GRK richiede infatti tutti gli introiti doganali, cosa che Bagdad considera illegale. Gli utili provenienti dalle importazioni legali, ma anche da un contrabbando importante (alcool, sigarette), alimentano regolarmente delle polemiche sulle pratiche corruttive. Dopo aver partecipato alla vittoria contro lo Stato Islamico, che ha peraltro permesso ai peshmerga di avanzare significativamente recuperando numerosi territori contesi, e dopo la requisizione dei giacimenti petroliferi di Kirkouk, il Kurdistan iracheno poteva apparire, alla luce del referendum del settembre 2017, in una posizione di forza. Ma pochi giorni dopo i risultati, l’offensiva dell’esercito iracheno, seguita da varie sanzioni economiche, ha capovolto la situazione.
Vittoria di Bagdad per asfissia economica
La riconquista di Kirkouk, che totalizzava 340mila dei 550mila barili prodotti ogni giorno dal Kurdistan, è stato un primo duro colpo per l’economia della regione. Nel mese di novembre, l’esercito iracheno riprende la totalità dei territori contesi. Bagdad decreta in seguito un blocco aereo e sospende tutti i voli, civili e commerciali, diretti agli aeroporti di Erbil e Suleymanieh, poi chiede ufficialmente ai suoi vicini turchi e iraniani la chiusura dei posti di frontiera oltre a un embargo sul commercio del petrolio. Una situazione difficile, alla quale bisogna aggiungere l’aumento significativo degli affitti nelle grandi città con l’arrivo in massa di rifugiati iracheni e siriani a partire dal 2014.
Il Kurdistan si ritrova dunque in una vera e propria crisi economica e il mancato pagamento dei salari ai dipendenti pubblici provoca problemi sociali, con il moltiplicarsi delle manifestazioni contro le amministrazioni, a Erbil e Douhok. A marzo 2018, Bagdad sembrava quindi in posizione di forza. Una revisione della costituzione votata dal parlamento fa passare la parte del bilancio allocato al GRK dal 17 al 12,6%. La legge indica altresì che “il governo autonomo del Kurdistan deve esportare 250.000 barili/giorno dai giacimenti petroliferi che si trovano sul suo territorio attraverso la SOMO (l’agenzia statale incaricata della commercializzazione del petrolio iracheno) e il denaro deve essere trasferito sul bilancio federale”.
Dinnanzi all’asfissia economica, Erbil accetta di restituire a Bagdad la gestione degli aeroporti e delle dogane situate in territorio curdo e ottiene in cambio un primo pagamento dei salari. Sospettando delle frodi, Bagdad esige tuttavia una verifica sul numero reale di dipendenti pubblici e avvisa che, in caso di mancato rispetto degli accordi o della nuova legge sul petrolio, i trasferimenti di bilancio saranno congelati. Il caso Rosneft potrebbe rilanciare nei prossimi mesi il conflitto attorno agli idrocarburi. Il gruppo semipubblico russo ha siglato nell’ottobre 2017 – e senza l’avvallo di Bagdad, che non ha esitato a parlare di “ingerenza” – degli accordi con il GRK per l’acquisto di petrolio grezzo. Sarebbero stati versati più di un miliardo di dollari come anticipo. A maggio 2018, a soli due mesi dagli accordi stipulati tra il GRK e Bagdad, Rosneft annunciava la firma di un accordo con il Kurdistan per la costruzione di una futura rete di gasdotti che collegheranno la provincia autonoma alla Turchia. Come tutta risposta, Bagdad convocava per il mese di luglio il presidente del gruppo, Igor Sechin.
Il futuro economico del Kurdistan resta incerto e intimamente legato ai rapporti con Bagdad. Anche se la Turchia e l’Iran appaiono come alleati effettivi dell’economia kurda grazie alle relazioni commerciali che intrattengono con il GRK, sul piano politico essi rimangono fortemente contrari alla costituzione del Kurdistan in quanto Stato. Tale indipendenza non sembrerebbe potersi ottenere se non attraverso una completa autonomia economica e il sostegno di potenze dotate della capacità di influire su Bagdad, Teheran e Ankara. Il rapporto di forza sembra oggi essere favorevole al governo centrale, ma la destabilizzazione politica del cosiddetto “arco sciita” potrebbe essere uno degli elementi di forza degli Stati esteri per incoraggiare lo sviluppo economico kurdo, prerequisito necessario per un’eventuale secessione.
Giuseppe Gagliano

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2 comments

Lorenzo 26 Novembre 2018 - 8:45

i Kurdi sono kurdi e gli arabi sono arabi. Il petrolio è dei kurdi perché su suolo kurdo, ma ha fatto sempre gola agli arabi. Bagdad è araba ed in accordo con gli americani. Gli arabi da quando hanno invaso il suolo kurdo hanno sempre spadroneggiato. I kurdi non sono padroni a casa loro, ci sono locali da arabi e locali per i kurdi. L ‘ambiente potrebbe essere simile all’Italia negli anni 50. La tradizione si scontra con ciò che di più è moderno, portando alle volte a qualcosa di bislacco e strambo. La questione del denaro si riflette su tutto. Il problema è che viene compreso solo il valore strumentale del denaro. Possiamo vedere cose moderne su di un popolo che non è culturalmente altrettanto avanzato. Sembra brutto da dire ma la realtà spesso è questa.

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surme Surme 27 Novembre 2018 - 1:41

Sono d’accordo con Sig. Lorenzo. E vorrei dire anche per chi conosce la posizione geopolitica del kurdistan capisce subito che vivere e sopravvivere non è facile, circondati dai nemici. Shorsh Surme

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