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Gli italiani di Crimea stretti nel braccio di ferro russo-ucraino

by La Redazione
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OLYMPUS DIGITAL CAMERARoma, 7 mar – Nel bel mezzo della contesa tra russi e ucraini, sale la preoccupazione anche per i trecento nostri connazionali che compongono la comunità italiana di Crimea.

Giunti in quelle terre nel 1800 su invito della zarina Caterina di Russia, che in seguito alla conquista dell’Ucraina volle sfruttare al meglio le risorse della penisola tra il mar Nero e il mar D’Azov promettendo a pugliesi, veneti e liguri territori a basso prezzo da coltivare e acque in cui pescare, per gli allora tremila italiani di Crimea iniziò un calvario che li portò a passare da benestante e rispettata comunità della Russia zarista a gruppo prigioniero dell’impero bolscevico.

La città di Kerch fu contesa per diversi anni in una guerra tra sovietici e tedeschi che ne obbligava i cittadini ad arruolarsi. Il 29 gennaio 1942, solo a Kerch, circa tremila italiani furono privati del proprio passaporto e deportati nei gulag sovietici del Kazakistan e della Siberia dove gran parte di loro trovò la morte, altri vi rimasero di generazione in generazione fino ai giorni nostri e i più fortunati (si fa per dire) riuscirono, con l’avvento di Kruscev e l’annessione della Crimea all’Ucraina, a tornare a Kerch da cittadini russi o ucraini in quanto ormai da anni privi di documenti d’identità.

Dei tremila connazionali che subirono le purghe staliniane ne tornarono solamente trecento. Dopo questo “olocausto sconosciuto” (come titola il libro di Giulia Giachetti Boico e Giulio Vignoli edito da Settimo Sigillo), gli italiani confinati in Crimea provarono poi, senza alcun risultato, a tornare nella loro vera madrepatria contattando ripetutamente lo Stato italiano, allora però troppo impegnato a riscrivere la storia dalla cattedra del Partito Comunista di Togliatti.

Dal dopoguerra in poi infatti, in Italia vigeva una certa difficoltà a parlare delle notizie che giungevano dai paesi dell’Est, tanto da arrivare al tentativo di occultare tragedie come quelle delle foibe di Tito o dei gulag di Stalin. All’epoca, aiutare a far tornare a casa i propri connazionali superstiti del “paradiso socialista” appariva a molti troppo politicamente scorretto: 300 deportati italiani che raccontano le sofferenze di un popolo oppresso dal comunismo? Non se ne parla! Fino a prova contraria non sono italiani!

Oggi le cose non sono cambiate e nonostante gli sforzi dell’associazione operante in loco denominata “Il Cerchio” (traduzione italiana di Kerch), del professor Giulio Vignoli e di poche altre onlus solidali negli aiuti alla comunità italiana di Crimea, nel 2014 ai nostri connazionali ancora non viene riconosciuta la cittadinanza italiana, cosa avvenuta invece per tedeschi e greci, e neanche lo status di deportati. Davanti alla stazione di Kerch vi e una stele in ricordo delle deportazioni staliniane in cui vengono nominati tedeschi, greci, armeni, bulgari e tartari ma non gli italiani.

In attesa del referendum del 16 marzo in cui i cittadini sono chiamati a decidere se entrare nella federazione russa, buona parte della popolazione spera che tutto si riduca in un braccio di ferro esclusivamente politico-diplomatico tra Mosca e Kiev/Bruxelles/Washigton, scongiurando l’incubo dell’ennesimo scontro militare su questa terra già a lungo contesa e martoriata. Certo è che per i nostri connazionali le possibilità di vedersi riconosciuto lo status di deportati e la cittadinanza italiana sono purtroppo sempre più lontane.

Andrea Bonazza

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