La volontà di smarcarsi dall’eredità del Front national era stata evidenziata già tra primo e secondo turno, quando la Le Pen si era dimessa da presidente del partito per sembrare più “ecumenica”. Anche in quel caso, tuttavia, la fretta era stata cattiva consigliera: come suo successore, infatti, era stato designato Jean-François Jalkh. Ma subito erano spuntate sue dichiarazioni “negazioniste” risalenti al 2000, una cosa di cui ovviamente nessuno sapeva nulla e di cui nessuno si ricordava, ma che la mossa della Le Pen ha avuto il merito di mettere in evidenza, con il risultato che, volendosi emancipare da alcuni temi scomodi, la Le Pen ci era ricaduta in mezzo con tutte le scarpe (alla fine presidente è stato fatto Steeve Briois). Non è detto che cambiare sia sempre negativo: in fin dei conti il Front national ha dei limiti oggettivi quanto alle sue possibilità di andare al governo. È un partito che, con il vento in poppa, può toccare il 35%, con un miracolo di strategia e comunicazione il 40%, ma è quasi impossibile che da solo possa portare la sua leader all’Eliseo. Non è un sacrilegio, quindi, voler costruire qualcosa che sia oltre, aggregando magari intorno a un asse radicale anche dei satelliti “moderati”.
L’impressione, tuttavia, è che si preferisca il coup de théâtre mediatico a qualsiasi costruzione reale e radicata. Non è detto che vada così. Magari si darà seguito alla strategia, abbozzata poco e male, ma comunque già in parte iniziata, di radicarsi nella Francia produttiva, nelle professioni, nei corpi sociali. Oppure si farà, appunto, una Fiuggi per dire che si è belli e buoni, proprio come i vari Fillon e i Sarkozy. Con il risultato che la gente voterà i Fillon e i Sarkozy originali, mentre il Front national perderà il voto militante. Staremo a vedere. Di sicuro tutti coloro che, in Francia, hanno influenza e radicamento nel partito dovranno impegnarsi affinché ogni evoluzione vada nel senso di una strategia realmente rivoluzionaria e non di un annacquamento perdente e immorale.
Adriano Scianca