Bruxelles, 7 set – La corte Ue ha respinto i ricorsi contro i ricollocamenti dei richiedenti asilo da Grecia e Italia avanzati da Slovacchia e Ungheria. Secondo i giudici della corte europea: “Il meccanismo contribuisce effettivamente e in modo proporzionato a far sì che la Grecia e l’Italia possano far fronte alle conseguenze della crisi migratoria del 2015”. Ma che cosa prevedono realmente queste relocations e perché Budapest e Bratislava si erano opposte?
In base agli impegni assunti dall’Unione Europea nel 2015, circa 165 mila immigrati dovranno essere ricollocati da Grecia e Italia verso altri Stati europei entro il 26 settembre. L’Ue puntava a realizzare così 6 mila ricollocazioni al mese ma, tanto per fare un esempio del fallimento del piano, a metà luglio scorso erano stati ricollocati solo 3056 richiedenti asilo, ovvero meno del 2% del totale. Come faccia l’Ue a ricollocare decine di migliaia di persone adesso, quando mancano venti giorni dalla scadenza del programma, resta un mistero. Il sistema di fatto prevede la ricollocazione di persone in evidente necessità di protezione internazionale. In quanto tali dovrebbero essere appartenenti a nazionalità il cui tasso di riconoscimento di protezione sia pari o superiore al 75% sulla base dei dati Eurostat (ad esempio quindi: siriani, eritrei, centroafricani). Questi immigrati, per lo più giunti clandestinamente in territorio europeo (italiano e greco nello specifico) dopo aver richiesto asilo nello stato di arrivo possono così essere trasferiti in altro Stato membro dell’Ue per l’esame della domanda di protezione internazionale.
Oltre, come abbiamo visto, all’evidente stato di fallimento del progetto, i problemi però sono sostanzialmente altri: si tratta di un palliativo per non concentrare troppi immigrati nella stessa nazione, riguarda un numero di immigrati risibile e che si prevede integrabili per forza di cose, dà per scontato che abbia diritto allo status di rifugiato chiunque provenga da determinati Paesi extraeuropei, è un incentivo ad emigrare spacciandosi per provenienti da Paesi in guerra. Bene quindi hanno fatto Ungheria e Slovacchia ad opporsi a questo progetto, dimostrando che non tutti gli Stati europei cedono al ricatto immigratorio. Certo, si tratta di un tentativo di erigere un muro che può andare a scapito anche dell’Italia, se consideriamo soltanto l’aspetto della ricollocazioni di immigrati come unica possibilità di gestione dei flussi. Invece è l’Ue che continua ad adottare politiche suicide per gli Stati membri, perché è ovvio che la soluzione non è redistribuire le quote dei “migranti” ma impedirne l’arrivo sulle nostre coste. Giustamente chi ancora non è completamente rimbecillito protegge i propri confini, chi al contrario tende supinamente ad aderire alle linee guida di Bruxelles si lamenta della scarsa collaborazione da parte degli altri. Se l’Italia si fosse schierata con Ungheria e Slovacchia, anziché subire i diktat dell’Ue senza battere ciglio ed anzi puntare a coinvolgere l’Ue stessa per soluzioni inutili come le ricollocazioni, inevitabilmente le stesse politiche di Bruxelles sarebbero destinate a cambiare radicalmente.
Prova ne è che nella fattispecie soltanto la Polonia ha difeso la scelta di Budapest e Bratislava, mentre tutti gli altri Stati (e insieme a loro la Commissione Europea) sono intervenuti a favore dell’Ue. “La solidarietà non è a senso unico. Ora bisogna andare avanti con i ricollocamenti e con le procedure d’infrazione (avviate, ndr)” anche in seguito alle pressioni dell’Europarlamento, “contro chi non rispetta la decisione della Commissione”. Ha commentato così la sentenza della Corte Ue il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani. Nulla, si continua a straparlare di solidarietà quando evidentemente l’unica solidarietà possibile non viene presa in considerazione: bloccare i flussi migratori e investire nei Paesi da dove partono coloro che poi pretendiamo di ricollocare a destra e a manca, perché sappiamo bene di non poter ospitare, affibbiandogli poi il patentino di rifugiati.
Eugenio Palazzini