La direttrice per la Cina di Human Rights Watch, Sophie Richardson, ha definito queste nuove politiche “una violazione sfacciata delle libertà di credo e di espressione garantite a livello statale e internazionale”. I provvedimenti sono parte della strategia cinese volta a limitare la libertà di religione e di espressione della comunità uigura, che da tempo avanza inutilmente richieste separatiste al governo di Pechino. Lo Xingjang è una regione autonoma della Cina nord-occidentale, snodo strategico per il transito di gas e petrolio proveniente dall’Asia centrale.
Gli uiguri, la popolazione che la abita, sono cittadini turcofoni musulmani perseguitati da Pechino per il loro credo religioso, la loro cultura e la loro lingua. In tutto sono circa 10 milioni di persone, e per la Cina rappresentano una minaccia etnico-nazionalista. La repressione dell’islam nella regione cinese a maggioranza musulmana, a favore di una cinesizzazione dell’area così come avviene in Tibet, è un fatto reale. L’anno scorso, per esempio, in nome dell’ateismo di stato, è stato vietato a dipendenti pubblici, studenti e insegnanti di osservare il digiuno del Ramadan.
Va ricordato, però, che è altrettanto reale l’estremismo religioso di matrice islamica dello Xingjang e gli uiguri sono una popolazione che sta andando a rimpolpare le fila dei combattenti dell’Isis. combattono al soldo del Califfo per portare avanti l’idea dell’indipendenza dello Xingjiang, che loro chiamano Turkestan Orientale. Pechino, con i tanti divieti che quotidianamente impone nella regione, dice di voler prevenire la radicalizzazione dei suoi abitanti. Per ora, però, il risultato sembra essere l’opposto di quanto voluto. A marzo, per la prima volta, l’Isis ha minacciato apertamente la Cina con un video in cui alcuni militanti uiguri promettono di tornare nello Xingjang per “far scorrere sangue a fiumi”.
1 commento
fossi un cittadino dello Xingjiang mussulmano certamente con queste oppressioni mi radicalizzerei,questo dimostra l’ottusa stupidità delle dittature