L’onda della cosiddetta primavera araba, nel 2011, non ha mancato di travolgere un Egitto che da decenni appariva saldamente in mano a Mubarak. Abbandonato però dall’Esercito, il governo egiziano è crollato in poco più di due settimane, aprendo la via a una fase elettorale che ha premiato, come era lecito attendersi, i Fratelli Musulmani.
Il leader del movimento islamista, Mohammed Morsi, nonostante i dichiarati propositi di non voler trasformare lo stato in una teocrazia, ha iniziato un percorso che inevitabilmente ha avvicinato la nazione egiziana ai Paesi più sbilanciati in quel senso, ottenendo persino i favori di Teheran, capitale con cui i rapporti diplomatici erano stati interrotti sin dagli albori della rivoluzione di Khomeini.
Tuttavia, la grave situazione economica, privata degli introiti del turismo, e la scellerata scelta di avvicendare il vecchio capo delle forze armate, Al Tantawi, con l’ambizioso Abd al Fattah al Sisi ha spinto quest’ultimo, nemmeno un anno dopo la sua nomina, ad approfittare di una serie di proteste anti-islamiste, organizzando un colpo di stato finalizzato all’estromissione completa dei Fratelli Musulmani dal potere, all’arresto di Morsi e di quasi tutti i dirigenti del movimento.
La particolarità del colpo di stato è che in pochi hanno ritenuto di doverlo definire così. La parola golpe è stata usata con moderazione, sottovoce, come se un colpo di stato contro un governo in odore di teocrazia, pur se democraticamente eletto, fosse da considerare una medicina amara ma necessaria. Formula dialetticamente un po’ contraddittoria, se a tenere questa posizione sono gli Stati Uniti, da quindici anni impegnati a portare democrazia un po’ ovunque, e con metodi piuttosto risoluti, ma è risaputo che il concetto di democrazia, a Washington, spesso si coniuga con quello di realpolitik in salsa kissingeriana.
Era successo, in circostanze completamente diverse, nel Cile di Allende, e le coincidenze non si fermano qui: in entrambi i casi il capo dei golpisti aveva frequentato scuole militari negli Stati Uniti, ed era stato messo al comando delle forze armate dal Presidente che poi avrebbe deposto. Quando si dice la gratitudine.
La figura di Al Sisi, soprattutto in una fetta importante delle masse arabe, può evocare in qualche modo il fantasma di Nasser – un generale che prende il potere per arginare una vera o presunta deriva islamista – ma non è passato inosservato un riferimento fatto dallo stesso Al Sisi, che ha evocato un sogno in cui Sadat gli prediceva un grande futuro. Sadat, non Nasser. Sadat, ovvero il presidente che da un lato ha guidato l’Egitto nella guerra del Kippur, e dall’altro ha firmato il successivo Trattato di Pace con Israele.
Al Sisi, una volta preso il potere, ha cercato immediatamente una sponda a Mosca, senza però interrompere le relazioni con Washington, generoso sponsor dell’esercito egiziano sin dai tempi degli accordi di Camp David. La visita di Kerry al Cairo di poche settimane fa, con l’impegno statunitense a sbloccare i cospicui finanziamenti ai militari egiziani temporaneamente congelati nei giorni del golpe, sembra quindi confermare, come sottolineato con una certa perplessità dal New York Times, il definitivo rilancio delle relazioni fra Egitto e Stati Uniti.
Inoltre, Al Sisi ha immediatamente reciso il filo che stava unendo l’Egitto, nella breve parentesi in cui il governo è stato nelle mani della Fratellanza Musulmana, ad Hamas e ai settori più integralisti dell’opposizione siriana al presidente Assad.
Potrebbe non essere un caso che la riscossa di Assad, a Damasco, sia iniziata più o meno in contemporanea con il cambio di regime in Egitto (primavera – estate 2013; il golpe del Cairo è del 3 luglio). O che, cambiando scenario bellico, Israele abbia iniziato a preparare l’escalation militare che l’ha portata a invadere nuovamente la Striscia di Gaza.
L’Egitto, che sta cercando di mediare fra le parti nel conflitto in corso a Gaza, sembra in sostanza muoversi non verso la creazione di una qualche alleanza regionale, quanto piuttosto alla ricerca di un nuovo ruolo da protagonista assoluto delle vicende mediorientali. Per fare questo, accompagna lo stato di polizia interno, volto a smantellare la Fratellanza Musulmana e la guerriglia salafita nel Sinai, e a ristabilire un ordine che permetta la ripartenza del turismo, uno dei motori dell’economia egiziana (il 12% degli egiziani lavora nel settore turistico, una quota superiore a quella degli impiegati del settore in Italia), a una politica estera tendente alla mediazione e alla risoluzione dei conflitti in corso in tutta l’area, dall’Iraq alla Palestina, dalla Siria alla Libia. Anche in questo caso dunque, più Sadat (o Mubarak) che Nasser. D’altra parte Al Sisi ha ben compreso che la sua sopravvivenza politica, insieme a quella di un Egitto laico, dipende dal depotenziamento di tutte le minacce integraliste.
Il problema sta tuttavia nelle difficoltà oggettive che l’Egitto si troverà ad affrontare a causa dell’intreccio di interessi contrapposti che il Medioriente sta vivendo in questi anni. Se la questione palestinese è piuttosto definita e in quella irachena l’unica posizione possibile che l’Egitto può sostenere è quella di chiedere un governo in cui i sunniti abbiano più peso di quanto accaduto negli ultimi anni, Libia e Siria sono scenari ben più complessi. L’esempio siriano è lampante: sostenere Assad significherebbe favorire l’Iran, ma sostenere i rivoltosi rafforzerebbe lo stesso fronte islamista contro cui Al Sisi ha operato il suo colpo di stato. E l’opposizione laica ad Assad, che pure gode di buone entrature al Cairo, sul campo non sembra più capace di riprendere l’iniziativa se non affiancando le milizie Al Nusra. Ovvero, gli integralisti appena un po’ meno integralisti dello Stato Islamico di Al Baghdadi.
Se quindi sarà difficile, per Al Sisi, trovare un posizionamento razionale e ragionevole nella guerra siriana, ancora più pesante e pressante potrebbe diventare la questione libica, se non altro perché i due Paesi condividono 1.200 chilometri di confine ed è proprio a ridosso di quel confine che le milizie islamiste libiche sono più organizzate. E proprio nelle ultime settimane, il generale Khalifa Haftar e alcuni reparti di forze speciali libiche, che si erano ribellate all’ectoplasmico governo di Tripoli combattendo con iniziale successo gli islamisti di Ansar al Shariah in Cirenaica (i responsabili, secondo Washington, dell’uccisione dell’ambasciatore statunitense Stevens a Bengasi), hanno subito una serie di pesantissimi rovesci, tali da costringere il generale e i suoi a riparare in Egitto. Il governo egiziano aveva sostenuto l’azione di Haftar, che aveva dichiarato di voler ricalcare i passi di Al Sisi, ma evidentemente non si sono verificate le condizioni per un appoggio che andasse aldilà di un supporto morale e logistico alle forze che rispondono al generale libico.
Il risultato è stato la proclamazione di un Califfato di Cirenaica, forse una effimera scimmiottatura dello Stato Islamico in Iraq e Siria, forse l’inizio di una nuova guerra civile in Libia, ben più sanguinosa degli scontri che da mesi coinvolgono le diverse milizie che di fatto controllano le varie zone dell’immensa nazione africana.
Se lo scenario dovesse essere quest’ultimo, per l’Egitto sarà impossibile restare a guardare e si troverà suo malgrado coinvolto nel ribollente calderone mediterraneo che da più di tre anni sta ridisegnando i governi, le alleanze e i rapporti di forza nell’area che dalle sorgenti del Tigri si estende fino al cuore del Sahara.
Mattia Pase
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