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L’Isis nella tenaglia di Assad. L’esercito siriano verso la vittoria finale

by Mattia Pase
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Roma, 28 lug – L’offensiva finale contro l’Isis può ormai dirsi iniziata anche in Siria. La preparazione è stata lunga sia a livello militare – nell’operazione sono inclusi il V Corpo (concentrato sulla direttrice Palmira Deir Ezzor), la Guardia Repubblicana (a Deir Ezzor e al fianco del V Corpo) e i reparti della Forza Tigre (al cui fianco combattono le Forze di Difesa Nazionale e alcune milizie tribali sunnite fedeli ad Assad, lungo l’Eufrate, a sud della zona occupata dai Curdi) – sia a livello diplomatico, con l’intervento russo che prima ha convinto Trump a “mollare” i ribelli e poi ha di fatto imposto un cessate il fuoco sul fronte sud, permettendo così la dislocazione di quei reparti nella grande battaglia finale contro l’Isis. Il morale dei soldati e degli ufficiali, stando a quanto filtra dalle poche fonti disponibili, è alto, e se da un lato questo è sorprendente, dopo sei anni e mezzo di guerra, dall’altro è comprensibile, vista la lunga scia di successi ottenuti dall’Esercito Siriano negli ultimi mesi. La speranza, anche se difficilmente qualcuno lo ammetterà pubblicamente, è quella di chiudere i conti con le bande dello Stato Islamico entro l’autunno. La speranza è quella di poter finalmente festeggiare il natale cristiano (i cristiani rappresentano circa il 13% della popolazione, e non soffrono di alcuna discriminazione, tanto da essersi schierati sin dall’inizio a fianco del Governo) senza che il rombo dei cannoni copra i brindisi e i canti.

Molto dipenderà dall’esito della manovra a tenaglia preparata dagli alti comandi siriani, in coordinamento con gli alleati russi e iraniani, che pareva doversi chiudere su Al Sukhna, cittadina posta nel centro del Paese, un centinaio di chilometri a est di Palmira, e che invece sembra puntare direttamente su Deir Ezzor.
La Forza Tigre infatti, una volta raggiunta la periferia sud di Raqqa, in cui l’Isis combatte una battaglia disperata contro i Curdi, invece di puntare verso sud, ha sorpreso le difese dello stato islamico – che probabilmente si preparava a proteggere Al Sukhna – lungo il fiume Eufrate, puntando quindi verso Deir Ezzor, in cui resiste, assediata da anni, una valorosa guarnigione della Guardia Repubblicana, comandata dal Generale Zahreddine, un alto ufficiale che non ha paura di farsi vedere in prima linea.
Il prossimo obiettivo, durissimo da raggiungere perché per l’Isis è l’ultima spiaggia, sarà Maadan, poi solo villaggi si frapporranno fra le Tigri e l’abbraccio ai loro commilitoni assediati.

L’Isis, che inizia a soffrire di una cronica carenza di uomini, in quanto non dispone più del vasto territorio che controllava solo pochi mesi fa e che permetteva ai suoi miliziani di muoversi celermente da un fronte all’altro, avrebbe quindi parzialmente sguarnito le linee ad Al Sukhna, permettendo così la seconda parte dell’attacco: il V Corpo – guidato dal Generale Mohamed Khadour – sarebbe penetrato nella cittadina nella notte fra mercoledì e giovedì, e sarebbero in corso scontri casa per casa. Presa Sukhna, e presa Maadan a nord, inizieranno a scorrere i titoli di coda per l’avventura islamista del “Califfo” Al Baghdadi, vivo o morto che sia. Stupisce, ma fino a un certo punto, l’assenza dei reparti di Hezbollah. Dopotutto, è normale che Damasco preferisca liberare Deir Ezzor con dei soldati che indossano la divisa dell’esercito nazionale, piuttosto che quella degli alleati libanesi. I quali, fra l’altro, sono impegnati a smantellare delle basi jihadiste sul confine fra Siria e Libano. E anche questa operazione sta avendo pieno successo.

Nella Capitale, infine, la Russia ha iniziato ad alzare i toni nei confronti dei ribelli asserragliati nei quartieri orientali, invitandoli caldamente a sgomberare, per permettere all’Esercito di riprendere pieno controllo di Damasco. Le recenti decisioni della Casa Bianca, che ha improvvisamente bloccato i programmi di supporto alle formazioni che si oppongono ad Assad – riconoscendo quindi implicitamente di aver giocato un ruolo fondamentale nel fomentare il caos siriano, e di averlo giocato molto male, visti i risultati – hanno lasciato le milizie ribelli più o meno moderate senza protezione. Probabilmente hanno abbastanza uomini e mezzi per resistere ancora qualche mese al ritorno dell’esercito, ma vista la piega presa dal conflitto potrebbero chiedersi se ne vale la pena.
C’è quindi la possibilità che accettino di essere trasferiti nella provincia di Idlib, saldamente in mano alle milizie di opposizione. E questo è un altro punto delicato della guerra. Perché se la partita con lo Stato Islamico sembra in via di chiusura, al netto di colpi di coda temporanei e attentati terroristici che continueranno ad affliggere a lungo il popolo di Siria, rimane aperta la questione di Idlib. In molti si sono chiesti, negli scorsi mesi, che senso avesse trasferire in quel governatorato le formazioni ribelli che via via si arrendevano in altre zone della Siria. A quanto pare un senso c’era. E’ infatti scoppiata una vera e propria guerra civile nella guerra civile, fra due fazioni islamiste, Ahrar al Sham e Tahrih al Sham. I primi, salafiti, i secondi legati ad Al Qaeda. Evidentemente la convivenza fra queste bande era decente fino a che ciascuna di esse aveva del potere da gestire, traffici da mandare avanti e via dicendo. Ma quando si sono trovate nello stesso fazzoletto di terra (la provincia è poco più grande del Molise) hanno iniziato a litigare. E il litigio si è trasformato in una serie di battaglie che hanno dato la vittoria (e il controllo di larga parte della zona) ai Qaedisti. Una volta terminata la guerra contro l’Isis, per il governo siriano sarà mediaticamente facile dimostrare che non c’è gran differenza fra l’Isis e Tahrir al Sham, visto che in fin dei conti entrambe sono emanazione diretta di Al Qaeda.

Resterà aperta, in ultimo, solo la questione curda. Che potrebbe finire come è sempre finita per i Curdi (cioè male), nonostante i buoni rapporti che in questa fase hanno sia con gli Stati Uniti che con la Russia, o che potrebbe portare a esiti diversi, e più favorevoli alle loro aspettative. Ma per comprendere cosa succederà in quella zona della Siria – e dell’Iraq – bisogna aspettare la fine della battaglia di Raqqa, lo svolgimento del referendum indipendentista nel Kurdistan iracheno, e si dovrà capire quanto è disposta a giocarsi la Turchia in termini di relazioni internazionali. Si dovrà infine capire quale sia la vera natura delle relazioni fra il Presidente Bashar al Assad e i circa due milioni di Curdi siriani, tiepidi alleati nel momento del bisogno, ma pronti a fronteggiarsi quando i reciproci interessi smettono di coincidere. Non appena lo Stato Islamico avrà cessato di rappresentare una minaccia per entrambi, scopriremo la verità.

Mattia Pase

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