Londra, 26 feb – Il mondo degli affari e della finanza si schiera contro il Brexit. Non solo Moody’s ha annunciato che, in caso di Brexit, abbasserà il rating del paese, ma, con una lettera indirizzata allo storico quotidiano “The Times”, circa duecento fra amministratori delegati, presidenti ed altri alti dirigenti di oltre un terzo delle cento aziende più grandi del paese, con oltre un milioni di persone impiegate, hanno ufficialmente espresso il loro parere contrario all’uscita dall’Europa: “Sulla base della rinegoziazione del primo ministro, crediamo che per la Gran Bretagna sia meglio rimanere in una Unione Europea riformata”. Tra loro, ben 36 aziende che fanno parte del FTSE 100 (indice azionario delle cento aziende più capitalizzate quotate al London Stock Exchange), compagnie aeree come Easy Jet, circuiti di pagamento internazionali come Mastercard, banche come la Lloyd’s, le società aeroportuali di Gatewick e Heathrow, esportatori come il gruppo Chivas e molti, molti altri ancora. Come la Vodafone, guidata dall’italiano Vittorio Colao il quale, in un’intervista su misura pubblicata pochi giorni fa dal Corriere, spiegava: “Come azienda non esprimiamo un giudizio politico, ma certo per i nostri i clienti, i nostri azionisti e anche i nostri dipendenti è molto meglio che la Gran Bretagna faccia parte dell’Europa”. Invece, anche il giudizio politico infine è arrivato: il suo nome è il secondo nel lungo elenco dei firmatari pubblicato dal giornale inglese. “Brexit, il no di Colao. Londra non vuole perdere l’anima, ma per gli affari serve l’Europa”, titolava il Corriere.
E chissenefrega dell’anima, sembra infatti il messaggio sottinteso nelle parole di Colao e di un appello che, come se ce ne fosse bisogno, mostra il tentativo delle lobby economiche di influenzare le scelte politiche. Lo stesso Colao, che pur sottolineava l’importanza di aver mantenuto la sovranità monetaria delegata da tutti gli altri stati all’Europa (“Credo che grazie alla sterlina la Gran Bretagna abbia mantenuto una grande flessibilità e grande capacità di reazione nella gestione della politica economica”), è insomma anche lui convinto che “gli affari hanno bisogno dell’accesso senza restrizioni ad un mercato europeo di 500 milioni di persone per continuare con la crescita, gli investimenti e la creazione di posti di lavoro”, secondo quanto spiegano i dirigenti nella lettera che ha conquistato la prima pagina di “The Times”. Una riflessione peraltro sacrosanta, che deve sicuramente far riflettere sulla necessità e sull’opportunità che il no a quest’Europa non sia un no ad un’altra idea di Europa, forte, “autarchica”, formata da popoli sovrani e liberi, grazie alla cooperazione tra loro, dal giogo americano e da qualunque altra forma di sudditanza economico-politica nei confronti di potenze straniere. Un’idea Europa certamente lontana da quella attuale, ma anche dalla visione dei conservatori britannici, storicamente contrari all’idea di una federazione e di un maxi-stato europeo ma, d’altra parte, da sempre alleati di ferro degli Usa e rappresentanti in Europa di interessi d’oltreoceano.
L’ipotesi Brexit, quindi, va considerata per quel che è: la necessità, nel bene e nel male, di tutelare i propri interessi da parte dello stato insulare. Necessità che divide lo schieramento dei Tories, con la contrapposizione tra il premier David Cameron, forte di una rinegoziazione dei trattati che permetterà alla Gran Bretagna di limitare l’accesso ai benefit da parte dei migranti economici provenienti dall’Europa, e l’eccentrico ed ambizioso sindaco di Londra Boris Johnson, che il prossimo 3 marzo sarà nel popolare quartiere di Croydon per un “question time” aperto a tutti. Un dibattito tutto interno allo schieramento conservatore, dunque, che secondo alcuni analisti ha già uno sconfitto: il partito laburista. “Non è tanto il fatto che i laburisti siano divisi – con una grande maggioranza del partito favorevole alla permanenza in Europa – quanto l’esser marginali”, commentava Rachel Sylvester sul noto giornale britannico. L’abilità di Cameron, del resto, sta proprio nell’esser riuscito ad ammiccare agli euroscettici, presentandosi come l’alfiere degli interessi del paese al tavolo europeo e sbattendo i pugni fino ad ottenere condizioni più che ragionevoli (tra le quali l’accettazione di un impegno che, quanto alla Gran Bretagna, non porterà mai all’integrazione politica), per poi poter tornare comunque a Londra come promotore del sì ad un’Europa riformata senza apparire incoerente. Un capolavoro di real politik, che non è certamente secondo alle recenti dure prese di posizione contro l’immigrazione clandestina unite alle “carezze” mediatiche alle minoranze etniche, con la lettera indirizzata ancora una volta a “The Times” per dichiarare il proprio no al razzismo istituzionale.
Una sfida tutta interna al fronte Tory, dunque, che non esclude la possibilità di un secondo referendum dopo quel previsto per il 23 giugno, annunciato pochi giorni fa, dopo il vertice europeo, da Cameron. C’è chi non esclude, infatti, che un voto favorevole all’uscita dall’Europa, con l’avvio di un processo lungo almeno due anni, possa servire semplicemente a fornire al paese un ulteriore strumento di pressione dell’Europa, per ottenere condizioni ancora più vantaggiose. Una ipotesi contro la quale si è già espresso proprio il sindaco di Londra: “Si tratta di una decisione strettamente democratica – la permanenza o l’uscita [dall’Europa, ndr] – e nessun governo può ignorarlo. Una seconda rinegoziazione seguita da un secondo referendum non è scritto sulla scheda. Per un primo ministro, ignorare l’esplicita volontà del popolo britannico di lasciare l’Europa non sarebbe semplicemente sbagliato, sarebbe antidemocratico”. L’uscita dall’Europa, del resto, non sembra avere possibilità concrete di realizzazione e, considerando le forti pressioni della stampa, del mondo del business e della finanza, del governo, i bookmakers danno all’ipotesi Brexit un comunque notevole 33% di probabilità. Tutto ciò nonostante la metà dei parlamentari Tory, circa 150 su 330 tra i quali molti ministri, faranno campagna contro l’Europa e nonostante il fatto che sui giornali l’opzione non è demonizzata come potrebbe accadere in casa nostra. Proprio “The Times”, del resto, in un articolo di fondo, esprime senza mezzi termini il disappunto per “la retorica della paura” da parte del mondo degli affari, a cui si rimprovera peraltro l’ambiguità e la poca chiarezza delle proprie ragioni.
Al centro delle preoccupazioni dei cittadini britannici, infatti, ci sono questioni molto concrete, in primis l’accesso ai benefit di un welfare state come quello inglese in cui lo Stato, pur patria del capitalismo più spinto, riesce ancora a fornire tutele forti alle fasce di popolazione a reddito basso. Uno stato sociale la cui tenuta è messa ora a rischio dalle ondate migratorie che spesso hanno condotto ad un vero e proprio “turismo del welfare”. I migranti europei, ad esempio, nonostante siano soltanto il 6% della forza lavoro, assorbono circa il 10% (circa due miliardi e mezzo di sterline) delle risorse destinate ai lavoratori con salari bassi. Ben 469.843 migranti su oltre 4 milioni di arrivi tra il 2001 ed il 2013 – prima che l’accesso venisse limitato con la richiesta di un minimo di due anni di permanenza (che ora molti vorrebbero portare a quattro anni) – hanno ricevuto alloggio o benefit per la casa. Il 40% dei migranti provenienti dall’aera economica europea ricevono benefit familiari: circa 6mila sterline all’anno in media in “tax credit”, con 8mila famiglie che ricevono oltre 10mila sterline l’anno. Circa 20mila, invece, gli europei che nel 2015 hanno ricevuto benefit per figli che non vivono in Gran Bretagna. E ben 700 milioni di sterline sono state pagate, tra il 2013 ed il 2014, ai disoccupati europei. Cifre che spiegano bene le ragioni degli euroscettici, già stanchi delle farraginosità dei meccanismi europei, ma che non possono far chiudere gli occhi di fronte ad un’economia, come quella della capitale inglese, in cui l’apporto straniero è ormai parte integrante del tessuto sociale cittadino e difficilmente sarà intaccato sostanzialmente da un’eventuale uscita. Di sicuro, la Gran Bretagna tenta di riprendersi un altro spicchio di sovranità. Mentre noi mettiamo, come sempre, il paese in mano ai colonizzatori.
Emmanuel Raffaele