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Ma quale fronte anti-occidentale. Cosa (non) ci dice l’incontro tra Putin e Xi Jinping

by Eugenio Palazzini
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Roma, 15 set – La storia delle relazioni internazionali, non solo quella riportata nei manuali di scienze politiche (si prenda l’ottimo Di Nolfo come riferimento), ci insegna che vertici e incontri ufficiali tra leader di grandi nazioni, sono soltanto il culmine – o l’antipasto – di tele diplomatiche tessute pazientemente in ben altre sedi, lontano dai riflettori mediatici. Nessuna tela che si rispetti, peraltro, è granitica. Si tessono tutte di giorno e si possono tutte disfare di notte. Metaforici moniti omerici, “al complice chiaror di mute faci”. Scontato farlo notare, si dirà, eppure necessario per evitare illusioni ottiche nel commentare l’odierno appuntamento a Samarcanda. Perché il faccia a faccia tra Putin e Xi Jinping, non ci consegnerà un fronte anti-occidentale, al massimo insulse conferme sul disimpegno cinese in Ucraina.

Il fronte anti-occidentale non esiste

Dalla sublime “fortezza di pietra” dell’antica Via della seta che fu, neppure emergeranno particolari novità sulle Vie della seta che verranno, perseguite pervicacemente da Pechino e avversate strenuamente dall’unico competitor effettivo della Cina: gli Stati Uniti. Politicamente, la Cina si percepisce impero, la Russia non può che limitarsi ad evocarlo, l’impero, senza esserlo. Geograficamente, Pechino sa di essere centro di gravità permanente dell’altro mondo, quello orientale, Mosca sa di essere ingabbiata dalla sindrome degli Urali, da sempre e per sempre a cavallo tra due mondi. E per quanto i rapporti di forza siano soggetti a eraclitea mutevolezza, l’attuale è l’unico metro impugnabile per misurare obiettivi e ambizioni di qualsivoglia potenza. Il resto è semplicistica accettazione del copione presentatoci da decenni, giusto per cianciare di unipolarismo e multipolarismo, da provetti geopolitici social.

L’attuale ci dice che siamo invece di fronte a un duopolio conflittuale (Usa-Cina), più per l’incapacità di tenere al guinzaglio i rispettivi – quanto a volte presunti – dipendenti, che per reale scontro frontale tra re sulla scacchiera. Se l’imperialismo degli Stati Uniti è alle prese con l’irrequietezza europea – sporadica, divisa, eppure perennemente scalpitante – la Cina egemonica rosicchia terreno alla Russia nell’Asia centrale che fu sovietica. E il Kazakistan è solo l’ultimo dei tasselli (quasi) perduti da Mosca. Tuttavia, la stessa Cina è costretta al lento passo, di fronte alle ambizioni dell’India, al ritorno del Giappone e ai malumori delle tigri del Sud-Est asiatico, mai come oggi oscillanti tra Washington e Pechino.

Perché la Cina non strapperà con l’Occidente

La Cina non mollerà la Russia, ma questo non significa affatto che strapperà con l’Occidente. Perché ha due necessità: perseverare con il proprio penetrante soft power e mantenere il proficuo interscambio commerciale, insostituibile con quella parte di mondo perennemente in via di sviluppo. In questo senso l’Occidente, paradossalmente, per la Cina conta più della Russia. Nel 2021 l’interscambio di beni tra Stati Uniti e Cina è stato pari a 657 miliardi di euro, quello con l’Unione europea (nel 2022 primo partner commerciale di Pechino) di 828 miliardi, quello con la Russia di appena 147 miliardi.

Leggi anche: “La Cina non gioca a scacchi”: l’aggiornamento dello speciale del Primato sulla guerra

L’abbaglio più grosso che si possa prendere oggi, è ritenere che la Cina sia in assoluto “schierata” da una parte, se non la propria. Il grande gioco, stavolta, non si gioca nei khanati di uzbeki e kazaki.

Eugenio Palazzini

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