Roma, 22 mag – “L’Armenia riconosce 86,6 mila chilometri quadrati dell’Azerbaigian, partendo dal fatto che l’Azerbaigian è pronto a riconoscere 29,8 mila chilometri quadrati dell’integrità territoriale dell’Armenia. E “86,6 mila chilometri quadrati dell’Azerbaigian includono il Nagorno-Karabakh”. E’ quanto dichiarato dal primo ministro armeno Nicol Pashinyan, citato dall’agenzia russa Tass. La notizia è di quelle bomba, perché se il governo di Erevan dovesse confermare la svolta annunciata da Pashinyan, si arriverebbe a sancire la fine di uno storico conflitto. Ammesso però che gli armeni approvino la decisione, rinunciando a una terra che da sempre ritengono parte integrante della loro nazione.
Il premier Pashinyan ha comunque specificato che il riconoscimento ufficiale avverrà soltanto previa salvaguardia della sicurezza degli armeni che vivono nella regione autonoma. “La questione dei diritti e della sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh dovrebbe essere discussa tra Baku e Stepenakert (capitale della Repubblica dell’Artsakh)”, ha dichiarato il primo ministro. Nello specifico, Pashinyan ha chiesto anche garanzie internazionali per la sicurezza e i diritti degli armeni che vivono nel Nagorno-Karabakh, temendo una possibile pulizia etnica da parte dell’Azerbaigian. Sta di fatto che le sue parole suonano come una resa improvvisa, dalle conseguenze al momento imprevedibili anche relativamente all’opinione pubblica armena.
Nagorno-Karabakh, terra ancestrale che l’Armenia sta per cedere
La provincia autonoma che l’Azerbaigian sta per inglobare è un montuoso giardino nero incastonato nella terra del fuoco. Non è una metafora, ma il significato letterale e tristemente profetico di Nagorno-Karabakh (Nagorno in russo significa “montagna”, Karabakh in turco sta per “giardino nero”), provincia autoproclamatasi autonoma nel cuore dell’Azerbaigian (azer vuole dire “fuoco”) e a due passi dall’Armenia. Un ampio limes martoriato da trent’anni, ovvero da quando è in atto il più lungo conflitto dalla caduta dell’Unione Sovietica. Anzi, a dirla tutta la prima tempesta di fuoco nel giardino nero rimbombò nel 1988, prima che evaporasse il comunismo in Russia e cadesse il Muro di Berlino. Tutto iniziò quando i circa 140mila armeni che vivevano in quest’area, grande più o meno quanto l’Umbria, si ribellarono all’azerificazione imposta da Stalin dichiarando la nascita della Repubblica del Karabakh Montagnoso.
Gli abitanti di questa terra caucasica erano e sono per lo più armeni, ma l’Azerbaigian ne rivendica da sempre la sovranità. Una guerra mai davvero spenta, nonostante qualche anno di relativa quiete. Cristiani contro islamici, armeni contro azeri e le solite potenze a muovere i fili. Da una parte la Russia, tiepido tutore della causa armena, dall’altra la Turchia che soprattutto dal 1993 punta tutto sull’Azerbaigian – nazione turcofona ricca di petrolio – e parla di “provocazioni” dell’atavico nemico armeno. Nel mezzo, tra i due litiganti, c’è l’Iran, che si è sempre posto come mediatore tra le parti. E se guardiamo la carta geografica tutto questo ha un senso, a prescindere dallo scontro etnico-religioso.
Tre anni fa siamo giunti a una nuova escalation del conflitto che ha generato la deflagrazione. L’Armenia di fatto è stata abbandonata al proprio destino dai governi europei, con la Russia che nell’autunno 2020 si è limitata a mediare un accordo che a ben vedere accontentava soltanto l’Azerbaigian. L’accordo prevedeva che gli armeni, in cambio della ritirata delle truppe azere da Stepanakert, restituissero alcuni territori a Baku. Nella regione contesa vennero inoltre inviati quasi duemila soldati russi e le parti belligeranti decisero di mantenere unicamente “le posizioni attualmente occupate”.
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In pratica, l’Azerbaigian inglobò già tre anni fa i territori occupati durante il conflitto, durato circa sei settimane. Ora l’Armenia sta per cedere tutto, o quasi.
Eugenio Palazzini
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