Roma, 1 ago – Vado o non vado? Provoco o non provoco? Sarebbe questo l’amletico dubbio che attanaglia in queste ore Nancy Pelosi, speaker della Camera Usa, che secondo i media americani era intenzionata a recarsi a Taiwan nei prossimi giorni. In realtà, l’impacciata politica dem ha già deciso di non recarsi nell’arcipelago, da decenni rivendicato dalla Cina. Nel suo tour in Estremo Oriente visiterà vari Paesi, tra cui Singapore e Giappone, ma eviterà di sbarcare a Taipei. Prova ne sia quanto riportato dal suo ufficio stampa, in una nota dove Taiwan non compare tra le nazioni coinvolte nel viaggio. Un apparente dietrofront che ha suscitato immediatamente la reazione dell’ex segretario di Stato Mike Pompeo: “Permettere che l’America sia bullizzata dalla propaganda cinese proprio dopo che il presidente Biden ha avuto una lunga conversazione con il Xi Jinping, invierebbe un messaggio molto negativo ai nostri amici nella regione: gli australiani, i sudcoreani ed i giapponesi”. Sta di fatto che la presunta visita di Pelosi ha generato una bufera mediatica e irritato fortemente Pechino. Di qui la facile conclusione di molti osservatori: si rischia la guerra tra Stati Uniti e Cina, ergo la terza guerra mondiale.
Vecchie voci, nuovi incubi
In realtà le voci su Nancy Pelosi in visita ufficiale a Taiwan corrono da mesi. Lo scorso aprile fu la stampa giapponese a ventilare l’arrivo a Taipei della speaker della Camera statunitense. Visita, prevista esattamente il 10 aprile, poi saltata ufficialmente perché Pelosi si beccò il Covid. Non una data casuale, perché il 10 aprile 1979 il presidente statunitense Jimmy Carter firmò il celebre Taiwan Relations Act, normativa che stabilisce il sostegno degli Stati Uniti all’arcipelago rivendicato da Pechino. E’ utile però precisare che la legge in questione, adottata 43 anni fa, non garantisce un intervento militare americano nel caso in cui la Cina dovesse attaccare l’ex isola di Formosa. Sulla carta, neppure prevede il contrario, ovvero la rinuncia Usa a intervenire. Quello che invece è previsto è il supporto americano con specifici aiuti militari. Il documento afferma cioè che “gli Stati Uniti metteranno a disposizione di Taiwan mezzi di difesa nella quantità necessaria per consentire a Taiwan di mantenere sufficienti capacità di autodifesa”. E’ dunque chiaro che una visita di Nancy Pelosi suonerebbe come una dimostrazione del sostegno esplicito dell’amministrazione Joe Biden a Taiwan, almeno dal punto di vista strettamente politico.
Non sarà Nancy Pelosi a scatenare la guerra a Taiwan
In tutto questo sono passati 25 anni dalla visita dell’ultimo speaker Usa a Taipei. Correva l’anno 1997 e allora fu Newt Gingrich a incontrare l’ex presidente di Taiwan, Lee Teng-Hui. Altri tempi, altri scenari globali e soprattutto altro peso della Cina sullo scacchiere. Al momento Pechino si è limitata però a evocare le solite “conseguenze” in caso di visite di Pelosi. La reazione più significativa, oltre alle ormai classiche esercitazioni militari nello Stretto di Taiwan, è stata nel frattempo la dichiarazione del ministero della Difesa di Pechino, in cui si avverte che la Cina potrebbe usare la forza militare per rispondere a quelle che considera “provocazioni inaccettabili” da parte degli Stati Uniti.
E’ comunque piuttosto difficile pensare che Xi Jinping sfrutti il pretesto di un’eventuale visita della Pelosi a Taipei per scatenare un conflitto pericoloso per tutti. Il diversivo strategico è forse più credibile, perché alla Cina manca ancora una marina militare competitiva e un arcipelago, armato fino ai denti dagli Usa, non si afferra senza navi da guerra. Certo, il progetto di riunificazione è sempre sul tavolo della Repubblica popolare e, realisticamente, non verrà mai abbandonato. Tuttavia, come abbiamo precisato in un apposito articolo pubblicato sul numero di luglio del nostro mensile, la fretta non è virtù confuciana e il tempo in Cina non si misura in cirillico. Il dragone attenderà ancora, prima di “sputare” il fuoco dalle fauci.
Eugenio Palazzini
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ce la pelosa