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Nucleare: l’Inghilterra costruirà tre nuove centrali

by Armando Haller
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Nuclear power plant with yellow field and big blue cloudsLondra, 3 ott – Gran Bretagna, Francia e Cina hanno dato il via libera alla costruzione della centrale nucleare di Hinkley Point C nel Somerset, a sud dell’Inghilterra. La francese Edf e China General Nuclear Power Group (Cgnpg) finanzieranno un progetto da oltre 20 miliardi di euro, che porterà alla realizzazione di due reattori EPR da 1600 MW, in grado di coprire il 7% del fabbisogno elettrico inglese a partire dal 2025. Gli accordi prevedono inoltre la costruzione di altri due impianti a Sizewell e Bradwell.

L’intesa, firmata lo scorso venerdì da Greg Clark (segretario alle Imprese), Jean-Bernard Levy (presidente di Edf) e He Yu (presidente di Cgnpg) arriva dopo il benestare del governo inglese guidato da Theresa May, che aveva inizialmente bloccato l’affare avviato dall’ex premier Cameron. L’esecutivo, salito in carica a margine del risultato referendario sulla Brexit, aveva infatti preso tempo per valutare una serie di questioni relative alla sicurezza nazionale e agli assetti proprietari delle centrali: i cinesi avrebbero potuto «interrompere la produzione di energia britannica in qualsiasi momento» aveva tuonato Nick Timothy, fra i consiglieri più influenti della May. Uno stop più che tempestivo, dal momento che solo pochi giorni dopo Szuhsiung Ho, advisor proprio della Cgnpg, veniva arrestato negli Stati Uniti con l’accusa di spionaggio nucleare.

Il 16 settembre, al ritorno da un viaggio in Cina della premier May, il governo inglese ha quindi dato il via libera al progetto attraverso un comunicato in cui si anticipano alcune integrazioni al precedente accordo con Edf, utili a evitare che le centrali possano finire in mani cinesi (o di altri investitori) senza il consenso del Governo.

Nella stessa nota viene anticipata la redazione di una “nuova normativa per gli investimenti stranieri nelle infrastrutture critiche del Regno Unito”, che permetterà al governo inglese “di avere una speciale quota di controllo in tutti i futuri progetti nucleari”. Nulla di nuovo in effetti, si tratta di un intervento non dissimile, almeno negli intenti, dalla “golden share” prevista nell’ordinamento italiano, con cui il governo ha facoltà di esercitare poteri speciali su alcune aziende di interesse pubblico. Un istituto giunto nel nostro Paese proprio su ispirazione del modello inglese negli anni novanta, durante la famigerata stagione delle grandi privatizzazioni. Più rilevante è invece il fatto che il Regno Unito consideri l’eventualità di realizzare nuovi impianti di generazione nucleare, in controtendenza con l’apparente ripensamento del ruolo dell’atomo cui assistiamo in Europa.

Non sono ovviamente mancate pesanti critiche dal mondo accademico e da coloro che, più o meno consapevolmente, avversano il ricorso all’energia dell’atomo, giudicata obsoleta, pericolosa e molto costosa rispetto gli attuali scenari di mercato. In questo senso, l’elemento più probante, al di là delle ovvie difficoltà realizzative dei nuovi impianti, è il prezzo che sarà pagato per l’energia prodotta: 92,5 sterline/MWh per 35 anni (su 60 di vita utile degli impianti), circa il doppio dell’attuale prezzo dell’elettricità all’ingrosso in Gran Bretagna. Un dato di sicuro impatto che tuttavia andrebbe mitigato da almeno due fattori quali il basso prezzo attuale del petrolio (destinato ad aumentare in base ai recenti accordi in sede Opec ma anche dai crescenti costi di estrazione cui vanno incontro i giacimenti del mare del Nord), nonché dal fatto che la produzione di energia elettrica da centrale nucleare non genera anidride carbonica. Il che crea notevoli risparmi in termini di costi sociali e, più direttamente, di costi legati ai diritti di emissione con cui tutte le produzioni che comportano l’emissione di gas serra devono fare i conti.

Senza considerare poi che la diversificazione del mix energetico è un aspetto sistemico decisamente desiderabile: oggi l’energia nucleare copre il 20% del fabbisogno elettrico inglese (il 27% nell’Ue), caratterizzato dalla forte presenza delle rinnovabili (22%), del gas naturale (35%) ma anche da una quota di importazioni continentali pari al 7%. È poi ragionevole immaginare che l’intero governo dell’approvvigionamento di energia dipenda solo in parte da considerazioni strettamente “ragionieristiche”. Il varo dei lavori di Hinkley diviene infatti per l’Inghilterra un passaggio di rilievo nelle relazioni bilaterali con Francia e Cina, ovviamente non limitate al solo sviluppo della tecnologia nucleare e che a margine della Brexit acquisiscono un peso specifico ulteriore.

Per tutte queste ragioni, il comunicato del governo inglese di metà settembre rappresenta una lezione politica e di sovranità da tenere a mente. La visione di lungo termine insita nella decisione di proseguire sulla via iniziata da Cameron permette infine di giudicare con molta prudenza i presunti effetti rivoluzionari della Brexit, da cui, a ben vedere, l’Inghilterra sembra essere stata spiazzata ben meno di quanto fantasticavano i media del Vecchio continente.

Armando Haller

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