Panama, 11 apr – Alla fine si strinsero la mano, aggiungendo storia a storia: nella prima occasione in cui Cuba è stata ammessa a partecipare all’incontro plenario dell’Unione degli stati americani, o Unasur, in corso a Panama (dal quale è stata esclusa dal 1963 proprio per volere di Washington), i presidenti Usa Barack Obama e cubano Raul Castro si sono intrattenuti per diversi minuti tra battute e ripetute strette di mano di fronte a un pubblico del più alto livello, incluso il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e allo stesso segretario generale dell’Unasur ed ex presidente colombiano Ernesto Samper.
“Al summit delle Americhe questa sera, il presidente Obama e il presidente Castro si sono salutati e si sono stretti la mano“, ha sottolineato in un comunicato Bernadette Meehan, portavoce per il National Security Council, mentre è atteso un incontro tra i due a margine del vertice.
Obama e Castro non si stringevano la mano dal 2013, quando si incontrarono al funerale di Nelson Mandela in Sudafrica, mentre è noto che i due presidenti hanno parlato per telefono lo scorso mercoledì.
Obama ha incontrato anche alcuni dissidenti cubani nel corso di un forum con rappresentanti della società civile a margine del vertice e davanti a loro ha voluto sottolineare: “Sono lieto che Cuba sia rappresentata qui con noi a questo vertice per la prima volta”, aggiungendo che “mentre gli Stati Uniti cominciano un nuovo capitolo nelle relazioni con Cuba, speriamo che ciò possa creare un clima in grado di migliorare le vite dei cubani, non perché viene imposto da noi, gli Stati Uniti, ma attraverso il talento e l’ingegno e le aspirazioni, e le conversazioni tra i cubani di tutte le estrazioni, in modo tale che possano decidere quale sia la strada migliore per la loro prosperità”.
Pare così chiudersi una lunghissima fase storica: iniziata con la rivoluzione cubana del 1959, seguita dalla tentata e fallita invasione della Baia dei Porci del 1961, passata attraverso la crisi dei missili sovietici del 1962 e un embargo durato oltre mezzo secolo che non è riuscito a rovesciare il regime socialista dell’Avana, e infine con il disgelo promosso tra gli altri dal Vaticano e concretizzatosi lo scorso dicembre.
Sulle ragioni specifiche che il 17 dicembre 2014 portarono Obama ad annunciare la volontà Usa di ristabilire normali relazioni diplomatiche con Cuba, abbiamo già discusso ampiamente su queste colonne, inclusa la prospettiva da evitare assolutamente da parte statunitense dell’installazione di una base radar e di telecomunicazioni russa sul territorio dell’isola caraibica.
Ci pare però che questa storica apertura possa sottendere anche esigenze più complesse e globali degli Stati Uniti, configurandosi in un quadro di relativo disimpegno dagli scenari meno critici, nonché rispondere all’opportunità di ridurre la schiera dei “nemici” nel mondo.
Per rimanere in tema Unasur, in una recente intervista all’agenzia di stampa Efe, il segretario generale Ernesto Samper ha dichiarato che al vertice di Panama bisognerà ridiscutere le relazioni Usa-America Latina a partire, innanzitutto, dalla rimozione delle basi militari americane nel continente, ormai “solo un retaggio della guerra fredda”.
Inoltre, alla ripresa dei rapporti diplomatici con Cuba fa da contraltare la sempre più pressante ostilità americana nei confronti del Venezuela: il 9 marzo scorso con un ordine esecutivo Obama ha definito Caracas “una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti”. Una posizione che la Comunità di Stati Americani e dei Caraibi (Celac), il 26 marzo, ha respinto con forza, condannando le sanzioni varate nei confronti dei funzionari venezuelani e definendole “misure unilaterali e coercitive contrarie al diritto internazionale”. Una posizione nettamente critica, questa, cui si sono uniti anche paesi tradizionalmente alleati degli Usa come Colombia e Messico, così come quelli economicamente dipendenti da Washington, Barbados e Trinidad.
Il vertice delle Americhe non dovrebbe quindi essere proprio una passeggiata per Obama, da cui probabilmente l’opportunità di partire con un segnale di buona volontà e la rimozione di un problema storico e ormai anacronistico come quello cubano.
A scala ancora più vasta, si addensano nubi sempre più nere sulla politica estera statunitense, dallo stallo delle crisi ucraina e siriana alla posizione sempre più ostile dell’Opec, fino alle grandi manovre finanziarie, commerciali e industriali centrate sulla Cina ed estese alla Russia, al complesso dei Brics e, sorprendentemente, all’Europa stessa, come già ampiamente riportato da questo giornale.
Una situazione che almeno in parte può spiegare anche l’accelerazione Usa verso il trattato con l’Iran sullo sviluppo nucleare, nonostante il feroce veto israeliano e saudita. Sotto questa luce, il fatto che Cuba e Iran possano uscire dalla lista degli “Stati canaglia” non può che rappresentare un oggettivo sollievo per Washington, anche al fine di concentrarsi sui molto più rilevanti dossier cinese e russo, e forse anche europeo. Senza considerare che, a fronte della posizione saudita di guida di un’Opec sempre più fuori controllo, contrapporre alla Riyad wahabita una rinascente potenza iraniana sciita potrebbe essere visto perfino con favore da oltreatlantico.
D’altra parte e forse soprattutto, sussiste la necessità impellente, per Obama, di concentrarsi sull’economia reale domestica che, contrariamente alle previsioni più affrettate dei mesi scorsi, soffre di una stagnazione che colpisce pesantemente i redditi della classe media e l’occupazione.
Innescata all’interno dalle bolle speculative favorite dall’immensa iniezione di liquidità che non ha trovato impieghi redditizi, tra cui la più clamorosa è sicuramente quella del nuovo petrolio estratto mediante fracking, e all’esterno dalla persistente contrazione del commercio mondiale con la conseguente minore richiesta della valuta mondiale di riserva, il dollaro Usa, l’emergenza economica richiederà un impegno così intenso, su tavoli talmente complessi e dagli esiti tanto incerti da giustificare ampiamente l’affrettata archiviazione dei secondari dossier cubano e iraniano.
Francesco Meneguzzo