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Omicidio Regeni: le (poche) luci e le (tante) ombre

by Paolo Mauri
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Regeni agenteRoma, 6 feb – A pensare male si fa peccato ma raramente si sbaglia. Questa ben nota massima sembra adattarsi perfettamente all’infausta sorte dello “studente” Giulio Regeni, trovato cadavere in un fosso alla periferia del Cairo.

Una morte che è a dir poco sospetta: sul cadavere del ventottenne friulano sono stati trovati evidenti segni di tortura. Se fosse un rapimento o una rapina andata male, come da subito ha sostenuto la polizia egiziana, sarebbe quantomeno anomalo il ritrovare tali segni di violenza sul cadavere; quale rapitore tortura la propria vittima prima ancora di chiedere un riscatto? Quale rapinatore si prende il tempo di bruciare il corpo del malcapitato durante lo svolgimento del reato? Difficile credere ad ipotesi simili visto il tipo di violenze subite dal Regeni. Anche il recente fermo di due sospetti che la polizia egiziana ha ricondotto al ragazzo ci appare troppo “rapida” per essere credibile: a nemmeno 48 ore dal ritrovamento del cadavere già ci sono due indiziati… la prossima volta chiamiamo la polizia egiziana per risolvere i casi del “mostro di Firenze” o per l’omicidio Gambirasio. Per capire meglio il perché di una morte simile occorre fare una panoramica sulla vita del ragazzo e sui possibili legami che questo abbia potuto avere in Italia ma soprattutto in Egitto.

Regeni era in Egitto per fare delle ricerche per il suo dottorato in commercio e sviluppo internazionale dell’università di Cambridge, del resto il suo bagaglio culturale è di tutto rispetto, come riporta Repubblica in un recente articolo: “Conosce varie lingue, parla inglese, francese, arabo, spagnolo. A 17 anni era andato a studiare in New Mexico per poi trasferirsi in Inghilterra. Nel 2012 e nel 2013 un premio al concorso internazionale ‘Europa e giovani’, dell’Istituto regionale studi europei, per ricerche e approfondimenti sul Medio Oriente, poi un’esperienza alla sede dell’Unido (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale) e infine un dottorato su tematiche economiche”. Collabora attivamente a “Il Manifesto” dove scrive della “Primavera araba” egiziana sotto pseudonimo, perché, come lui stesso ha riferito ai suoi colleghi, si sentiva minacciato.

Ed è proprio questa sua attenzione verso la ribellione egiziana che lo pone al centro dell’attenzione. Secondo alcune indiscrezioni riportate dal blog di un giornalista, Marco Gregoretti, i suoi continui contatti con gli attivisti anti al-Sisi lo avrebbero reso scomodo ai servizi di sicurezza egiziani in quanto “fomentava l’opposizione”. Del resto i suoi articoli sul movimento sindacale egiziano e i ripetuti incontri presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws) uniti al suo ultimo reportage dove definiva l’Egitto uno “stato di polizia” attaccando frontalmente il Presidente al-Sisi che veniva ritenuto reo di aver “[…] ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del Paese, mentre l’Egitto è in coda a tutte le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa” non potevano che renderlo inviso alle autorità egiziane.

Ma l’analisi che vogliamo fare, oltre a considerare le presunte indiscrezioni riportate da Gregoretti, vuole soffermarsi su un particolare che è sfuggito forse ai più: a seguito dell’omicidio il Governo italiano ha deciso la sospensione di una missione di una sessantina di aziende italiane in corso al Cairo e guidata dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi. Ci chiediamo quindi perché il Governo abbia preso una decisione così drastica: l’Egitto è, almeno formalmente, un paese amico ed un alleato nella, ormai instabile, regione nordafricana; un provvedimento del genere sarebbe più consono da prendere verso un paese non molto “amichevole”, dato che, se guardiamo alla casistica passata, se fosse stato usato lo stesso metro di giudizio, l’Italia avrebbe dovuto ritirare le proprie delegazioni commerciali in almeno la metà dei paesi latino-americani e africani. La domanda che ci poniamo quindi è: che tipo di relazioni aveva Regeni con il Governo? Perché quindi la necessità di sospendere la missione? L’obiezione che potrebbe essere mossa, ovvero che siano venute a mancare improvvisamente le condizioni di sicurezza per la stessa, ci pare poco credibile: una missione commerciale ufficiale, soprattutto guidata dal ministro in persona, di certo prevede tutte le misure di sicurezza del caso, soprattutto in un paese come l’Egitto a rischio estremismo islamico.

Pertanto forse il Regeni era un agente sotto copertura dell’Aise? Sempre secondo Gregoretti così sarebbe. Del resto il profilo del giovane friulano ben si adatta agli standard che i nostri Servizi hanno stabilito con la nuova campagna di reclutamento cominciata qualche anno fa (correva l’anno 2014). Intanto gli stessi Servizi smentiscono categoricamente che il ragazzo fosse uno dei nostri 007, e ci sarebbe sembrato strano il contrario, affermando che “ogni e qualsiasi collegamento di Regeni con l’intelligence italiana è da smentire categoricamente” e si dicono “stupiti e costernati” per tali insinuazioni (sic!). Se fosse davvero dimostrato che Regeni stesse lavorando per l’Aise verrebbe da farsi una ulteriore domanda, tanto più scomoda e a cui non è possibile con certezza dare risposta: chi avrebbe avuto l’interesse di deteriorare i rapporti tra Egitto e Italia alla vigilia dell’intervento in Libia con l’eliminazione di un agente italiano sotto copertura? Rimaniamo nel campo delle possibilità, che qualcuno definirebbe anche fantascienza, ma, come dicevamo all’inizio, a pensare male…

Paolo Mauri

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